Letteratura

Non ci sono più i romanzi di una volta

19 Giugno 2015

I romanzi di una volta sono quelli a trama proliferante del Settecento o quelli fluviali dell’Ottocento. Non ci sono più perché allora i romanzi erano tutto: teatro, cinema, televisione, fumetto, internet, play station. Soddisfacevano da soli il nostro bisogno eterno di narrazione e il nostro immaginario di uomini in perenne ricerca di un Altrove. Un’avventura in quei romanzi iniziava, come nel “Tom Jones” o nel “Joseph Andrews” di Fielding, appena il protagonista metteva il piede fuori dalla porta di casa. Ed è già un’avventura per Oliver Twist raggiungere Londra a piedi dal suo paesello.

Quei romanzi non ci sono più per due ragioni. Una “a parte subiecti”, per dirla in maniera colta, cioè lato romanziere. È successo che ad un tratto i romanzieri cominciarono a rifiutare il “romanzesco”. Flaubert irride la sua eroina Emma Bovary  che si abbevera a questi romanzi “romanzeschi”. Scrive di questi libri:

Non parlavano che di amore, di amanti e di innamorate, dame perseguitate che scomparivano in padiglioni fuori mano, postiglioni uccisi a ogni tappa, cavalli sfiancati in tutte le pagine, foreste tenebrose, cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barche al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, cavalieri coraggiosi come leoni, mansueti come agnelli, e virtuosi come nessuno, sempre ben vestiti e malinconici come sepolcri.

Marthe Robert, una psicoanalista francese, dedicherà un capitolo di un suo libro (“Romanzo delle origini e origini del romanzo” – non esiste traduzione italiana)  a Flaubert intitolandolo proprio “In odio al romanzo”. Aveva ragione. La trama nei suoi romanzi si appiattisce fin quasi a svanire e Flaubert sembra raggiungere così  il suo obiettivo di scrivere “un romanzo su nulla”, senza trama cioè, “autoreggente”: che si regge solo con la forza interna delle frasi, non attingendo alle trame dilatate e sorprendenti, rifiutando il  “romanzesco”. Il suo testimone passerà a Joyce che compirà il passo successivo, ancora più rarefatto e “punitivo” per il lettore,  raccontando  l’avventura di un solo giorno addirittura e non di un eroe piumato ma  di un “uomo medio sensuale”.

Ma è successo qualcosa anche “a parte obiecti”. È cambiata la realtà.  Si sono accorciate le distanze, e dopo un volo come gli uccelli  ci ritroviamo la mattina a Milano e due orette dopo a Londra. La nostra vita è stracolma di sensazioni immediate, e per quelle mediate abbiamo elaborato un gusto molto più esigente anche se non necessariamente più raffinato. Abbiamo alzato l’asticella in ogni caso. Altro che cavalli e locande e briganti. Insomma non ci accontentiamo facilmente di quei piaceri cinematici che dava il romanzo di una volta. Siamo per i piaceri catestematici (la distinzione tra i due tipi di sollazzo è in Epicuro, uno che se ne intendeva di piaceri) quelli fermi nel chiuso delle quattro mura, dove compiamo immensi viaggi “attorno alla nostra camera” grazie ai nostri computer.  Se vogliamo azione, intrattenimento, svago, alienazione bruta, andiamo al cinema o prendiamo in mano la play station (provo a indovinare le sensazioni che ti procura un gadget tecnologico  che non ho mai posseduto).

Il romanzo, direbbero i francesi, chiede un “manque de vie” un’assenza di vita trafficata, di vita vissuta. Il romanzo latita  quando la società è effervescente  (con la Rivoluzione o con Napoleone ) e fiorisce quando gli animi sono spenti (con la Restaurazione). Perché il romanzo è  un investimento libidinale, cioè è pura catessi (termine usato da  Freud in non ricordo più quale sua pagina). Oggi noi abbiamo tutto, e non sublimiamo più, questa è la verità. Marcuse dirà che è colpa del sistema  che  insuffla in noi la soddisfazione immediata del bisogno e non ci consente più di sublimare e di investire con la catessi: insomma ci doma, ci seda con  la “desublimazione repressiva” (usa proprio questa locuzione), ci dà tutto e ci toglie l’altra dimensione, quella liberatoria del sogno, e ci chiude in una dimensione sola, quella della soddisfazione immediata, bruta, del bisogno. Siamo sazi e disperati e incapaci di sognare, ahimè. Viviamo in un romanzo senza “romanzesco”.

Non ho mai condiviso del tutto questa interpretazione letta ne “L’uomo a una dimensione”. Primo  perché non si capisce “chi” sarebbe il “sistema”. Michael Walzer dirà che quello di Marcuse  è un predicato senza soggetto: “chi” sarebbero i responsabili di questo “sistema”? Gli gnomi svizzeri o Lilly Gruber, la sola donna tra i sei italiani ammessi tra i superpotenti del Gruppo Bilderberg che pare fare e disfare il mondo? Secondo, perché meglio sazi e disperati che digiuni e senza speranza. Di fronte alla vita, la “letteratura” (in senso lato, come abbiamo visto, ossia ogni “investimento libidinale”)  cade sempre e comunque  per quel che mi riguarda. Nonostante che abbia amato i romanzi più a vent’anni –  quando non avevo abbastanza vita o la immaginavo solamente anche attraverso i romanzi-  preferisco adesso che sono lettore più freddo e meno appassionato e ho compiuto bene o male il mio tratto d’esistenza immerso nel poco che ho (che è immensamente tanto per chi viene con le barche, e lo sa). “Il paradiso terrestre è dove sono io” diceva Voltaire a  conclusione del “Mondano”.  È vero:  viviamo tutti come Frédéric Moreau ne “L’educazione sentimentale” una vita –  un romanzo si direbbe – senza “romanzesco”. Meglio così, signori. Assumiamo  la convinzione di fondo maturata anche con  la vita irrelata, la vita alienata, la vita trafficata in cui siamo  “costretti e ristretti” a vivere e facciamola massima della nostra esistenza: meglio il malessere del benessere che il malessere del malessere.

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