Letteratura
No stepchild adoption no! Contro il fraudolento anglopovero
Questo non è il solito lamento sull’invadenza della lingua inglese nel nostro linguaggio quotidiano. Aspira ad essere un tentativo di meditazione su alcune nostre tendenze nazionali (italian grains, oh yes!) osservate attraverso la spia linguistica. Premettiamo che non abbiamo alcuna prevenzione purista e che seguendo l’impostazione pragmatica della “linea lombarda” (Il Caffé, soprattutto) riteniamo che una lingua abbia il diritto di approvvigionarsi dei termini che le servono per le proprie necessità comunicative dove ritiene più opportuno: attingendo ai linguaggi speciali o anche fuori dogana, se occorre. Arbasino (in Certi romanzi) elogiando il funzionalismo linguistico degli scrittori lombardi avvertiva tra l’altro che la parola “test” sostituisce dopotutto una trafila di termini italiani …”prova di selezione attitudinale” e rimarcava il loro spirito di trasgressione contro il purismo imbecille che “caldeggia l’impiego di qualsiasi grulleria del Piovano Arlotto per definire prodotti e nozioni del nostro tempo, e approva l’uso del greco antico per indicare un qualche cosa che non c’è (il nettare, l’ambrosia), mentre respinge qualunque termine inglese moderno relativo invece a qualche cosa che c’è (come il gin-and-tonic)”.
È l’uso che fa la lingua e non il contrario, e pazienza se ciò porta tutti a dire “il” fine settimana piuttosto che “la” fine settimana, pur trattandosi del termine di una cosa e non di uno scopo. (Ma siccome traduciamo, una volta tanto, dall’inglese week-end, è chiaro che abbiamo subìto anche il genere del termine tradotto).
“S’è sfondato il setaccio dei Cruscanti”, avvertiva Gadda ( I Viaggi e la Morte) nell’affrontare tematiche linguistiche analoghe, ed è fatale che tutti i termini passino attraverso delle maglie più larghe.
Ma resta qualche perplessità: perché indire infatti un election day per decidere di una devolution o per fare una nomination? E pagare un ticket per un day hospital? … La diffusione massiva dell’informatica non ci ha risparmiato nulla delle alluvioni linguistiche anglosassoni: il mouse, il file, il software, il web, sono termini che nemmeno il mio word processor mi sottolinea col rosso, perché ormai sono italiani. Altrove, in Francia e in Spagna, i parlanti, non le autorità, hanno fatto barriera e hanno tradotto quei termini in castigliano o nella lingua di Cartesio, e dunque, raton, fichier, logiciel, toile, octet etc. Perché, da noi, neanche una protesta, mentre piuttosto c’è stata una corsa vigliacca all’adozione del più bullettistico slang anglopovero? ( A Roma ho sentito un raccapricciante “minotauro” linguistico, frutto degli amori illeciti tra romanesco e inglese, testualmente: “domani inizia er chichoffe der proggetto”, ovvero il kick off, il calcio d’avvio di un progetto…).
In tutti i settori, ad eccezione di quelli liturgici e curiali e legali (ma anche nel mondo delle pandette si è dovuto subire qualcosa da Perry Mason ), l’anglopovero, ossia quell’inglese elementare, neanche basic english, orecchiato qui e là, ha imposto le proprie parolette, ed anche nell’italianissima Camera dei Deputati si è udito parlare di question time, invece di interpellanza parlamentare.
Sicuramente nell’economia e nella finanza l’invasione è stata soffocante. Oggi possiamo leggere più parole inglesi su “Il Sole 24 ore” che sul “Financial Times” (new economy, start-up, strong buy, stock option, bond, buy back, out performer, spending review, spread ecc ecc). Ma anche sulle strade statali e provinciali delle quiete valli lombarde, ad esempio, nessuna insegna è stata risparmiata, con effetti grotteschi nei puri paesi leghisti, dove i pasdaran padani si sono arrampicati sui cartelli stradali per cancellare un innocente Comenduno a favore di Cömendü, ma sono rimasti insensibili davanti ai cartelli annuncianti i sexy shop più grandi di Europa, o i dancing o le pizzerie take away, e, neanche a dirlo, hanno ignorato i cartelloni pubblicitari del sito www.bergamoland.com. E, in politica, non chiedono la devoluzione ma la devolution.
Perché tutto ciò? Perché tale arrendevolezza linguistica? Avanzerei almeno due risposte: una di natura demopsicologica e l’altra di carattere storico-culturale.
1) Per pura vigliaccheria e inferiority complex, come argomentava ironicamente Gianni Brera, (il quale dal canto suo maneggiava la lingua italiana come un vecchio orafo di Valenza Po). Subito dopo la guerra, persa ignominiosamente, non ci è sembrato vero poterci appropriare della lingua di quel popolo (e dei loro discendenti yankee) che avevamo biasimato per i loro “cinque pasti al giorno”. Non potendo fabbricare ancora, ma solo per poco, il loro chum gum, non potendo avere, come tutti i popoli poveri e primitivi le loro cose ci siamo per intanto appropriati delle loro parole, sperando così di evocare e di propiziare con esse un mondo che ci sembrava inattingibile. Silvio Lanaro in un suo bel libro ( L’Italia nuova, Identità e sviluppo, Torino, Einaudi, 1989) ci ha spiegato come ha funzionato nel suo Veneto tale meccanismo linguistico, che poi sottende un meccanismo psicologico e mimetico di perdita della propria genuina identità popolare a favore di un’americanizzazione inconsulta e massmediale. Un popolo, aggiungiamo noi, che passa dal dolce dialetto dei padri all’inglese rudimentale delle soap opera che destino potrà mai avere?
2) Per l’attitudine, secolare oramai, degli intellettuali italiani (intesi nel senso più ampio, gramsciano, di tecnici, umanisti, operatori culturali in genere) di cospargere il proprio discorrere di un po’ di terroristico latinorum. Infatti, dalla Controriforma in poi, era proprio il latino che aveva avuto questa funzione che oggi è dell’anglopovero. Manzoni (indotto da una preoccupazione di origine sicuramente verriana all’adozione di una lingua il più possibile referenziale e all’opzione per una sincera democrazia linguistica il più possibile larga e popolare) sfotté questa tendenza dei nostri perenni don Abbondio e don Ferrante, stigmatizzando l’uso di un linguaggio fraudolento nei confronti dei puri e dei semplici, dei poveri Renzo coi capponi in mano e col cappello calato sulla fronte. È la vecchia storia de “al contadino non far sapere…” Di questo atteggiamento mentale, morale e intellettuale, la Chiesa Cattolica porta molte responsabilità. Aver parlato in latino, in una lingua morta, non più compresa dal popolo, fino al 1967, al solo scopo di coprire di un’aura di sacertà cerimoniale e impenetrabile i misteri di cui era unica detentrice, è stata una colpa che chissà in quale Giubileo sarà disposta a riconoscere. Tale comportamento ha indotto, per fatto mimetico spontaneo, ogni italiano colto, ogni chierico che parla in pubblico a indossare una veste linguistica orfica, sacerdotale, autoreferenziale. Tutto pur di non dare con le parole la cosa, o di usare altre parole (jobs act, stepchild adoption), per non dare quella cosa o per darne un’altra.
Ho assistito, da discente, a decine di corsi di formazione. Dozzine di conferenzieri e consulenti aziendali – mai passati peraltro da rigorose e selettive business school -, si alternavano sulla cattedra concionanti ora di business plan ora di costumer satisfaction, ora di process value analysis, mai preoccupandosi, di sdoganare i propri termini appresi frettolosamente da qualche altro consulente (no, non ho mai notato uno sforzo intellettuale di patire sui libri, anche inglesi, no, ho registrato piuttosto un passaggio di tipo orale delle conoscenze apprese alla bell’e meglio da una lavagna luminosa all’altra), mai curando di tradurre, non dico i termini, che potrebbero starci anche nell’inglese sobrio di Harvard, quanto di fare quella necessaria opera di transplant culturale, da una cultura manageriale all’altra, da un ambiente lavorativo all’altro, da una “cultura” all’altra. No, troppa fatica e troppa umiltà ci sarebbero volute. Meglio terrorizzare l’uditorio con il latinorum dell’anglopovero.
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Pubblicato già con altro titolo e con lievi modifiche su Linkiesta .
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