Letteratura
Niente di Vero: una recensione e un’intervista con Veronica Raimo
Ci sono libri che con un’apparente disarmante semplicità arrivano al nocciolo della questione, ti spiazzano, magari mentre ti stai facendo due risate, aprendo una finestra sul tuo passato. Sono libri che non vogliono insegnare niente, che non hanno una “morale della storia”, che non ripercorrono a ritroso i passi di una vicenda personale per dimostrare che si può arrivare a un obiettivo, che crescere significa davvero qualcosa. Sono pochi e “Niente di vero” di Veronica Raimo, scrittrice, sceneggiatrice, traduttrice, giornalista è uno di questi. Con uno stile diretto, vicino al quotidiano e – in certe sfumature – alla serialità, Raimo racconta episodi della sua vita mescolando passato e presente, infanzia e età adulta, con passaggi temporali ravvicinati e un procedere che richiama il flusso di coscienza, ma privo di quell’artefatto autocompiacimento tipico di questo espediente e del disordine che implica. I ricordi sono ordinati, ma in una sequenza personalissima di rimandi, rispetto alla quale il lettore deve solo abbandonarsi, osservandoli scorrere.
Si ride, si piange, come a teatro, perché in scena va la commedia umana di una vita ordinaria nella quale ciascuno può riconoscersi e che, allo stesso tempo, esce dagli schemi, mettendo al centro le persone, le loro relazioni più o meno vere, a metà strada fra biografia e fiction. I personaggi infatti restano tali: non siamo di fronte a un ritratto familiare, nè a una semplice autobiografia. L’ironia, che si mescola sempre a spunti di riflessione che non fanno sconti (nè alla protagonista, nè al lettore), impedisce al testo di trasformarsi in un romanzo di formazione. Non c’è nessuna pretesa di epicità, eppure è impossibile non soffermarsi, in alcuni passaggi, sugli spunti esistenziali posti, sempre con una mezza risata di fondo, un avvertimento a prendere la questione con la dovuta leggerezza. Veronica Raimo non vuole provocare il lettore, non lo vuole scuotere con dichiarazioni abrasive, ma nell’estrema linearità di pensiero emergono domande di senso le cui, parziali, risposte, non appartengono al mondo delle “cose facili”.
Ma i corpi dei malati trasformano gli altri corpi
scrive raccontando della malattia del padre, che ha salutato tempo prima della sua effettiva morte, di come il prendersi cura di lui abbia cambiato la sua relazione con il compagno, il suo essere presente.
E ancora, raccontando della scoperta del “cimitero dei feti” e della sua esperienza personale con l’aborto:
Ho finito l’articolo, ho fatto le mie ricerche su internet e ho chiamato A. Gli ho raccontato la mia scoperta. -Sembra un film dell’orrore, – mi ha detto. Invece era solo la destra italiana unita al cattolicesimo antiabortista. In effetti, due ingredienti perfetti per un film dell’orrore. – Dici che dobbiamo andare a vedere anche noi? – gli ho chiesto. – Tu che vuoi fare?
Non sapevo rispondere. Ero indignata, incazzata, incredula ma non sentivo il riaprirsi di vecchie ferite, non sentivo lo squasso del dolore. Che esperienza sarebbe stata andare lì e scoprire la croce? La prima cosa che ho pensato è che non conoscevo nessun bar nelle vicinanze del cimitero dove poter andare dopo a bere. Mi è difficile pensare di affrontare un’esperienza importante senza un bar nelle vicinanze. E poi era davvero importante?
Ciò che per senso comune viene affrontato con estrema gravità o con irrisione dissacrante viene semplicemente riportato in questo libro a ciò che: un fatto della vita. Una vita che scorre più o meno controllata, più o meno strutturata, secondo lo schema che ciascuno di noi si è dato.
Sono sempre stata aliena al concetto di “lasciarsi andare” per un motivo molto banale: non so dov’è che dovrei andare.
E così “Niente di vero” diventa anche il riscatto di chi non vive lasciandosi travolgere dalle passioni, seguendo l’onda, ma nemmeno nasce con una vocazione bruciante, con un talento che deve per forza esprimere. La rivincita di chi ha trovato nello stare in equilibrio fra ciò che è e ciò che potrebbe essere il suo spazio, senza rinunciare per questo a riconoscersi.
Non c’è alcun motivo reale perché non mi trasferisca a Berlino, ma se mi trasferissi smetterei di avere un solido rimpianto che mi tiene in vita tutti i giorni.
Abbiamo parlato con Veronica Raimo del suo romanzo in una breve intervista.
Niente di vero è un romanzo biografico che non condivide canoni e percorsi col romanzo di formazione tradizionale, piuttosto racconta episodi della vita, uniti da un flusso di pensiero (o di coscienza) strutturato, affrontando temi importanti come la malattia, il lutto, la perdita di un’amicizia, le difficoltà nel definirsi attraverso lo sguardo degli altri con uno stile leggero e una forte componente autoironica. Come nasce questo romanzo, così distante dai tuoi precedenti?
Mi capita quasi sempre di prendere direzioni diverse dopo aver scritto un libro. Non è una scelta del tutto consapevole, più una sorta di curiosità, provare ad andare da un’altra parte. Dopo un romanzo come Miden, che era ambientato in un posto fittizio – tanto che si è parlato di speculative fiction – ho virato su qualcosa che invece riguardava più da vicino la mia vita. Ma tra i due romanzi c’è stato in mezzo un libro che forse in qualche modo può anche rappresentare un anello di congiunzione – sono pensieri che formulo a posteriori, per provare a ristabilire una filiazione – che si chiama “Le bambinacce” ed è stato scritto con Marco Rossari. Non è un romanzo, ma una raccolta di poesie, di filastrocche, che aveva in sé un registro tra il comico e lo stralunato e metteva in scena delle strambe creaturine desideranti. “Niente di vero” che, come dici tu, non è affatto un romanzo di formazione, ma al limite di de-formazione, o meglio è un romanzo piuttosto scettico sull’idea che la “formazione” in sé abbia valore, ha qualcosa a che vedere con “Le bambinacce” proprio nel tentativo di raccontare l’esistenza di una donna non attraverso una traiettoria lineare che deve arrivare dal punto A al punto B, ma attraverso una serie di scarti, di divergenze, di allegra sfiducia nel concetto stesso di traiettoria.
I personaggi in questo racconto sono persone a te vicinissime, ma restano, appunto personaggi, non fedeli riproduzioni di un memoir. Come hai lavorato sulla costruzione della storia e, appunto sui personaggi? Come ti sei relazionata con loro – se lo hai fatto – nella vita reale, rispetto a quanto stavi scrivendo?
Mi viene da dire che ho lavorato molto su una sorta di resa orale del testo. Mentre lo stavo scrivendo, non ero così sicura che stessi in effetti scrivendo un romanzo. Era una specie di monologo che procedeva per accumulo di episodi, di tormentoni, da cui affioravano i personaggi, e quindi voci via via riconoscibili. Dentro ci sono persone che ho chiamato con i loro veri nomi, sebbene le abbia trasformate in personaggi letterari. Non è un libro che ho scritto per fare i conti con qualcosa o qualcuno, ho trattato la materia letteraria per quello che è, ammettendo il grado di finzione, così come la prossimità al reale. Mentre scrivevo il libro era questo il mio rapporto con la vita reale, uguale a quello che ho sempre avuto quando scrivo. Ma quando ho finito il libro, visto che c’era la possibilità più esplicita di un riconoscimento da parte altrui, ho parlato con alcune delle persone che potevano sentirsi chiamate in causa.
La noia è co protagonista del racconto, verrebbe da dire quasi una compagna di vita, soprattutto negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. In un’epoca in cui la noia viene percepita come un “valore” nell’infanzia, perché – secondo alcuni – creatrice, ti senti di dire che abbia dato spazio e “radici” alla tua vena creativa?
Mi sento di dire che non augurerei a nessuno di annoiarsi così tanto negli anni infantili. Ma poi ci si convince sempre che tutto in qualche modo sia stato utile, e allora penso che tutte le ore di noia e profonda solitudine vissute da bambina mi abbiano portato a escogitare delle strategie di sopravvivenza; insomma se bisogna fissare un muro, tanto vale proiettarci qualcosa su quel muro.
Leggendo il tuo romanzo si piange e si ride molto. La prosa, curata e vicina al quotidiano, rende familiari i fatti che racconti. Ci sono modelli a cui ti sei ispirata? Autori di riferimento o anche, in senso lato, modelli tratti da film, serie, giornalismo?
Ho letto Sedaris per vedere in che modo lavorava comicamente ai suoi ritratti di famiglia, anche quando racconta di fatti piuttosto drammatici. Ma poi ho letto anche cose molto distanti da quello che stavo facendo io, mi interessava ad esempio chi usava uno stile frammentario di racconto, mi viene in mente una come Sarah Manguso. Anche rispetto alla serialità televisiva, ad esempio, apprezzo chi mette in discussione il mezzo stesso che sta usando, facendo saltare i meccanismi tipici della serialità. Poi forse c’è dentro anche un po’ dello spaesamento di un comico come Troisi, o almeno mi piacerebbe che fosse così.
Oltre a essere autrice di narrativa tu sei traduttrice, sceneggiatrice, scrittrice per la carta stampata. Che rapporto hai con la scrittura?
Da un lato c’è un discorso di mera sussistenza: non potrei permettermi di vivere scrivendo libri e basta. Ma non è solo questo. Credo che essere immersi nella scrittura a più livelli, imparare linguaggi diversi, continuare a studiare, dia qualcosa di vitale anche alla propria scrittura narrativa. Penso sia abbastanza fondamentale avere questo rapporto aperto e dialettico con la scrittura, il che significa anche con la scrittura degli altri.
In questi giorni si discute molto del ruolo politico della cultura come portatrice di visioni differenti, per il suo ruolo di denuncia, di resistenza a tratti. Tu credi che la scrittura sia un fatto anche politico?
Non so bene cosa si intenda quando si parla di “cultura” come categoria generica, la sua natura inglobante e indeterminata rischia di diventare dannosa. Io penso che a un certo livello qualunque testo nasconda degli ideologemi, per dirla alla Bachtin, quindi qualunque testo può avere una lettura politica. E quella lettura mi interessa. Ma mi interessa appunto come strumento critico. Quindi non penso che la scrittura sia di per sé un fatto politico, ma che la scrittura possa avere sempre un’interpretazione politica. Oggi quel tipo di interpretazione viene fatta molto meno e si tende a pensare che la letteratura abbia un ruolo di denuncia per il semplice fatto di dichiararlo. Questo lo vedo come un problema.
Hai qualche nuovo progetto in corso in questo momento?
No, per il momento no. Mi piacerebbe però lavorare a un progetto insieme ad altre persone.
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