Letteratura
Nea-polis: la città sfuggente
La Sirena e la Sibilla: viaggiando lungo la costa fra i Campi Flegrei e la Costiera Amalfitana, inseguendo il mito, la storia e la leggenda di una Nea-polis che non accetta definizioni.
Nel 1989 la sensibilità e la curiosità di Fabrizia Ramondino e Andreas Müller portarono alla pubblicazione di un volume – Dadapolis, Napoli al caleidoscopio (Einaudi) – che raccoglieva, secondo una precisa ottica individuata dai curatori, decine e decine di brani scritti da autori di tutte le epoche, intorno ad una realtà che restava nei fatti quasi misteriosa: Nea-polis.
Nel bene e nel male, nella letteratura come nella cronaca, Napoli ama far parlare di sé e delle vicende che la animano.
In questo continuo sottoporsi al giudizio, la città ha assunto mille volti spesso in contraddizione e ha rischiato, sempre, di esser confusa e scarsamente compresa: vecchie immagini oleografiche; antichi e nuovi pregiudizi; storie solo in parte verificabili; attese di novità e delusioni cocenti; episodi inquietanti e iniziative geniali.
Non solo la città, ma anche i suoi dintorni si prestano alla ricerca della bellezza – a tratti devastata, a tratti – miracolosamente – conservata – e alla curiosità del viaggiatore che, per caso o per scelta, osservi la costa dal mare.
Questa piccola suggestione abbiamo provato a seguire.
L’orribile accostato al bello, il bello all’orribile, si annullano a vicenda e finiscono per produrre una sensazione d’indifferenza. Non v’ha dubbio che il Napoletano sarebbe un altr’uomo, se non si sentisse prigioniero fra Dio e Satana.
(Johann Wolfgang von Goethe)
Dai Campi Flegrei alla Costiera Amalfitana si presentano al viaggiatore, vedute fra le più famose al mondo.
Dalla notte dei tempi, senza sosta e senza cesure, la storia ha attraversato e travolto queste terre, alternando: artisti e soldati; amanti e nemici; barbari e santi; eroine e cortigiane.
Non sono mancati gli eroi antichi e moderni e i miti antichissimi.
Su tutto domina, forse, l’incontro tra la forza del mare e il fiume delle lave; lo spettacolo delle forze della natura e dell’operosità degli uomini; le testimonianze archeologiche – uniche al mondo -, nello splendore dell’erigere e nel terrore della distruzione.
Lasciandoci guidare del fascino di questi luoghi e dalla loro suggestione, possiamo spiegarci perché al centro di quest’area sia stata collocata una città continuamente nuova e continuamente vecchia.
Una Nea-polis metabolizza, infatti, tutto ciò che la storia produce e protegge il proprio mito, inglobando in sé ogni nuovo elemento.
Antico e nuovo s’incontrano sempre per far scorgere una nuova città, una Neapolis ancora.
Conquistata e protetta, amata e negata, la città ha attraversato i secoli, conservando i segni dei tanti che la videro, senza in realtà lasciarne prevalere alcuno.
Tutto si è miscelato e stratificato e c’è sempre qualcosa che si potrà aggiungere.
Questo popolo entusiasta è, per sua natura, molto scettico. Usa abusivamente il condizionale. Non si dice a Napoli: “Che strada è questa?…”; “Che Chiesa è questa?…”; “Che ora è?…” ma: “Che strada sarebbe questa?…” eccetera.
Domandai a una brava donna se una bambina che era lì con lei, era sua figlia. “Sarebbe mia figlia” mi rispose”.
(Roger Peyrefitte)
In questo senso di apertura, di un discorso mai completamente chiuso e mai definitivo, s’inseguono splendori e miserie.
La storia di questi luoghi comporta pedaggi altissimi e vantaggi secolari; nobiltà e miseria si stringono la mano; devastazione e capacità progettuale si coniugano; il sopra rimanda al sotto; il dentro al fuori.
Possiamo passare ora a riflessioni filosofiche ed avere pietà delle cose umane. Che cosa rappresenta infatti la gran fama delle rivoluzioni e degli imperi, nei confronti delle catastrofi che cambiano l’aspetto della terra e dei mari?
(Chateaubriand)
L’incontro di elementi eterogenei è amplificato dalla forza vulcanica che tutto trasforma e il fuoco eracliteo s’impone come una metafora assoluta: tutto appare bellissimo in una disarmante e rattristante precarietà.
A chi si è avvicinato a questi lidi, in cerca di porti sicuri e di strade che conducano alla meta, si è offerta un’esperienza fatta di amare sorprese.
La sirena Partenope giunse sul lido campano a gettare un ponte verso un’altra figura che del rapporto misterico con gli dei aveva fatto il proprio splendore: la Sibilla cumana.
“Ventum erat ad limen”, annuncia Virgilio nel VI libro dell’Eneide, mentre accompagna il pio troiano alla scoperta della sua vocazione e del suo destino. Una soglia impercettibile, eppure netta, separa il mondo del noto dall’ignoto, il mondo della parola razionale da quella evocativa.
L’antro della Sibilla è scavato nella roccia – anche su esso incombe ovviamente il dubbio sulla sua posizione, tra studi archeologici e credenza popolare – come tanti altri luoghi magici dell’umanità che il territorio nasconde.
Sirena e Sibilla sono due figure note a tutti per i loro poteri: l’una canta, per far naufragare i naviganti; l’altra parla, per indicare cammini nascosti.
L’una si perde però nell’altra.
Partenope è, infatti, una sirena sconfitta dal canto di Orfeo e non è in grado di sviare più nessuno. Essa continua ad attirare per il suo mito e non può più difendersi, perché la vergogna per la sconfitta l’ha ridotta in pietra.
Gli uomini continuano a celebrarne le gesta e a conservarne la memoria: il suo canto è flebile e mette tristezza, come il fascino cadente di una vecchia diva.
L’altra, la Sibilla, propone percorsi di difficile comprensione, alimenta dubbi più che offrire certezze: l’eroe sa che, interpretandone rischiosamente l’ambiguità, potrà conoscere il proprio destino.
Sirena o Sibilla la parola si condensa nella pigra accettazione dell’esistente, nella memoria di un passato affascinante, nel sogno di un domani migliore.
L’immagine della Sibilla, che rappresenta l’antecedente e il diverso contrapposto ai poteri costituiti, ha continuato a fluttuare nei recessi di un’autonomia calpestata, assumendo linguaggi ermetici e notturni, perché il linguaggio solare ed esplicito non è mai consentito ai vinti.
Joyce Lussu
Eros, caligine, riti apotropaici, divinità ctonie e altri termini giungono nei nostri luoghi a minare le certezze di ogni navigante che, tra l’inquieto canto delle sirene e la parola guida della Sibilla, deve soltanto comprenderne il diverso grado di precarietà. L’ambiguità suadente del canto e della parola non è lontana dall’ambiguità delle infinite testimonianze di chi nei secoli ha visitato Napoli e i suoi dintorni.
Nea-polis poteva restar stordita da tanto inchiostro piovuta su di essa. Non si danno quasi scrittori e artisti che non ne abbiano baciato i lidi e attraversato le strade.
Fra i viaggiatori del grand tour e l’implacabile teoria dei conquistatori qualcosa si salda e si coagula. Per tutti, resta, sospeso fra le righe, il senso di una grande passione che non ammette molte posizioni: o si ama e si vive fino in fondo, o si fugge spaventati.
Napoli rappresenta qualcosa di comune a tutti gli uomini: un lacero sfarzo ch’è nelle possibilità di tutti, una scarmigliata dignità ch’è un aspetto della natura umana e una cadenza della storia.
Elio Vittorini
Il discorso ci dice in genere che tutti hanno percepito la vertigine di essere giunti “ad limen”, alla soglia, al confine, al bordo appena evidente della storia, al bagliore accecante di una finestra sull’infinito, sul possibile, sul cangiante che non cambia mai, su di uno spiraglio, attraverso il quale l’umanità cerca di afferrare e comprendere se stessa.
Questo testo è stato già pubblicato, con una diversa titolazione, su http://www.mentinfuga.com
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