Letteratura
Moda, alimentari, delivery. I consumi nell’era Covid spiegati da Anna Zinola
Il boom dell’e-commerce e la rivincita dei negozi di vicinato. Il crollo delle vendite dei prodotti di lusso e la crescita vertiginosa di disinfettanti e mascherine. Il delivery di quasi tutto: cibo, gelato, vino e persino cannabis (legale). Il 2020 ci ha, sinora, riservato non poche sorprese, anche per quanto riguarda i consumi. In questo agile saggio, intitolato Io compro a casa. Carrelli virtuali e reali nell’Italia del 2020, edito da Guerini, Anna Zinola offre la prima panoramica completa e accurata sui consumi degli italiani post coronavirus. E racconta come tutto è cambiato. A cominciare dalla spesa, che dapprima ha subìto l’effetto bunker (con il carrello stipato di carta igienica, pasta e tonno in scatola) per poi adattarsi ai nuovi ritmi e riti del lockdown (con grandi scorte di farina, lievito e tinture per capelli) e, infine, assestarsi su una nuova normalità. Ma a mutare è stato anche l’approccio alla moda e al lusso, che sta cercando declinazioni inedite, più vicine alle nuove sensibilità dei consumatori. Chi è uscito vincente da questa situazione? Sicuramente l’e-commerce, che ha recuperato nell’arco di poco tempo un gap di anni, i negozi di vicinato, che hanno saputo rispondere con efficacia alle esigenze dei consumatori, e il delivery, che ha coinvolto molteplici categorie. Senza dimenticare tutto ciò che ha a che fare con la salute e il benessere: dagli integratori ai farmaci sino ad arrivare a guanti e mascherine. A soffrire sono stati, invece, il mondo del fuori casa (ristoranti, pizzerie, bar, gelaterie) e degli eventi live (teatro, musica, sport). Ma la rivoluzione – se così possiamo chiamarla – è solo all’inizio. Quanto accaduto sinora è destinato a incidere a lungo sugli atteggiamenti e i comportamenti dei consumatori.
Per gentile concessione dell’editore e dell’autrice pubblichiamo un estratto del libro dedicato al settore della moda.
La moda non è (più) quella di un tempo?
Il meccanismo si è inceppato
Le sfilate con le persone che si accalcano all’entrata. I negozi pieni di gente. La ressa per i saldi. Il 2020 ha cancellato tutto questo. Sì, perché il Covid-19, con le regole di distanziamento sociale che ha imposto, ha cambiato profondamente il mondo della moda. L’intero sistema produttivo è saltato, travolgendo milioni di persone in decine di Paesi diversi: dall’operaio che lavora nella fabbrica tessile in Vietnam al commesso del negozio di Milano, dai fashion designer che disegnano le collezioni a chi (giornalisti, fotografi, influencer) quelle collezioni le promuove in tutto il mondo.
La moda si regge su un lavoro globale strettamente concatenato. E la pandemia ha creato uno sfasamento temporale tra le varie fasi. Un Paese costretto all’isolamento ha trascinato con sé gli altri e, una volta rientrato nella normalità, ha dovuto fare i conti con le restrizioni approvate nel frattempo dalle altre nazioni, come è accaduto in Cina. Di fatto molte aziende di abbigliamento – soprattutto quelle di fast fashion, cioè le catene di vestiti economici e alla moda come H&M,
Zara e Forever 21 – non controllano l’intera filiera di produzione. Commissionano, cioè, la realizzazione dei vestiti nelle fabbriche ubicate nei Paesi asiatici dove il costo del lavoro è basso, come il Bangladesh, il Vietnam e la Cina. Qui i capi vengono confezionati e poi spediti nei magazzini dei committenti per essere distribuiti nei vari canali off line e on line.
Intorno a questo processo ruotano molte altre figure: giornalisti di moda, fotografi, videomaker, modelle, stylist, truccatori, spedizionieri, magazzinieri, influencer e così via… L’epidemia ha bloccato tutto il meccanismo. La chiusura delle fabbriche in Cina, avvenuta tra gennaio e febbraio, ha fermato molti ordini delle aziende occidentali che, in alcuni casi, li hanno trasferiti in altri Paesi. A partire dalla seconda settimana di marzo anche l’Italia ha interrotto quasi tutta la produzione. In questo modo ha stravolto i programmi dei marchi di lusso, i cui prodotti vengono spesso realizzati (in tutto o in parte) nei nostri laboratori artigianali. Ma ha bloccato anche i programmi delle fabbriche cinesi, rimaste senza pelle per produrre scarpe, borse e interni d’auto. Va, qui, sottolineato che – come ha ricordato Carlo Capasa, presidente della Camera della moda italiana, in una lettera
aperta rivolta al Governo e pubblicata su Repubblica ad aprile – «siamo il primo Paese in Europa per la produzione del tessile, abbigliamento e accessori, staccando di 30 punti la Germania e di 43 la Francia. Il 41% della produzione europea di moda è quindi fatto in Italia».Nelle fabbriche 550.000 addetti in cassa integrazione
In Italia il mercato della moda vale 97 miliardi di euro, due terzi dei quali sono destinati alle esportazioni. A marzo, quando il Governo ha disposto lo stop della produzione, sono stati posti in cassa integrazione circa 550.000 addetti su un totale di 580.000 (fonte: Confindustria Moda). 30.000 sono stati impiegati nelle fabbriche dedicate alla produzione di occhiali e tessuto non tessuto (usato per esempio per le mascherine). Tra le regioni più colpite vi è stata la Toscana, dove nei mesi di marzo e aprile il prospero settore tessile è stato chiuso al 90%.
All’estero, però, non tutte le fabbriche sono state chiuse per decreto, come in Italia. Così, per esempio, in alcuni Paesi dell’Africa occidentale le unità produttive, rimaste attive, hanno semplicemente applicato le stesse misure prese durante l’epidemia di Ebola nel 2014-2016: sanificazione regolare degli ambienti, distribuzione di guanti e mascherine, nuove postazioni per lavarsi le mani.Perché l’e-commerce non ha fatto boom
Anche la logistica è entrata in crisi dopo la decisione delle compagnie aeree di sospendere i voli commerciali. Molte merci, che prima venivano trasportate nelle stive degli aerei passeggeri, sono state affidate a jet privati molto più costosi. Ma l’impatto più marcato è stato sull’e-commerce. Le consegne on line sono rallentate per garantire le norme di sicurezza, come la distanza minima di un metro tra i dipendenti e le frequenti sanificazioni degli ambienti. Molti rivenditori, tra cui Amazon, hanno dato priorità a beni di prima necessità, facendo slittare le consegne di vestiti e accessori. Il sistema è diventato più lento, costoso e meno affidabile e alcuni brand hanno deciso di rinunciarvi e chiudere del tutto, come la britannica Stella McCartney e il gruppo emiliano Max Mara. Così, se inizialmente, con il diffondersi dell’epidemia da Coronavirus, l’on line è sembrato la soluzione per arginare la crisi e continuare ad alimentare le vendite, nell’arco di qualche tempo l’entusiasmo si è smorzato. Insomma, più che di un boom, si è trattato dell’esplosione di una bolla. La conferma arriva dai dati raccolti da Netcomm-Politecnico di Milano durante le settimane di emergenza sanitaria: l’88% delle aziende in questo settore ha dichiarato di aver registrato un calo di fatturato, mentre solo per il 4% le vendite sono aumentate. «Non c’è dubbio che l’e-commerce in generale sia cresciuto a doppia cifra, ma il comparto moda è andato in controtendenza» ha detto a Fashionmagazine.it Ilaria Tiezzi, ceo di Brandon Group, un marketplace expert che aiuta le
aziende a vendere i propri prodotti. «Si è rilevato un rallentamento costante e, anche se fare stime non è facile, sono molte le realtà del comparto che hanno registrato anno su anno un calo delle vendite del 30%».…ma lo farà presto
È probabile che, dopo questa fase di stallo, l’e-commerce ricominci a crescere. Una volta archiviato, o almeno metabolizzato, lo tsunami Covid-19, i consumatori riprenderanno ad acquistare on line, come peraltro stavano facendo sempre più spesso prima dell’epidemia. Ne è convinto anche Josè Neves, fondatore di Farfetch, secondo il quale il comparto continuerà a crescere, spinto non dal virus ma da abitudini di acquisto che già stavano cambiando. Neves, che prevede una crescita pari al 25% nei prossimi dieci anni, ritiene che, quando l’emergenza sanitaria sarà superata, occorrerà investire per far re-innamorare il consumatore del retail on e off line. Va in questa direzione la sua
decisione di pianificare, per la fine dell’anno, una campagna volta a promuovere la vendita al dettaglio on line e off line. «L’obiettivo» ha dichiarato in un’intervista al sito Wwd.it «sarà far entusiasmare di nuovo le persone per queste bellissime boutique virtuali e reali». Il vero boom dell’e-commerce quindi non è con il Coronavirus: il meglio arriverà quando l’emergenza sarà superata. Ma come avverrà la ripartenza? Ci sarà un’impennata o avverrà gradualmente? «Penso» dice Tiezzi di Brandon Group «che sarà un processo progressivo e lento, anche perché il vero punto di ripresa si verificherà solo quando tutto il sistema globale si riprenderà».La moda senza le sfilate
In Italia la crisi del Coronavirus è iniziata nel pieno della Settimana della moda di Milano (18-24 febbraio), quando le principali aziende italiane hanno presentato le collezioni per l’autunno/inverno 2020-2021. La pregressa diffusione del virus in Cina aveva impedito la partecipazione dei buyer (cioè chi decide quali vestiti comprare per grandi magazzini e rivenditori), clienti e giornalisti
cinesi, per cui erano stati organizzati streaming delle sfilate e presentazioni on line. L’evento si era concluso con le sfilate a porte chiuse di Armani, mentre Moncler aveva cancellato la presentazione al pubblico del progetto Genius. Molte collezioni presentate a Milano avevano già toni cupi, distopici, da fine del mondo. Il medesimo mood era evidente anche nelle sfilate di Parigi, culminate in quella di Balenciaga, con modelli dai visi e dai corpi deformati che camminavano faticosamente e rabbiosamente a pelo d’acqua. Le sfilate si sono concluse il 3 marzo. Quelle successive sono state, in gran parte, cancellate. In particolare non sisono tenute le sfilate cruise, programmate tra aprile e maggio e solitamente organizzate in posti particolari, lontani dai tradizionali circuiti della moda. Così, per esempio, Gucci ha sospeso l’evento previsto a San Francisco, Max Mara quello di San Pietroburgo mentre Chanel ha annullato le Métiers d’Art di Chanel, la manifestazione dedicata ai suoi atelier artigianali che avrebbe dovuto tenersi a Pechino e poi a Londra. Non solo: sono state rimandate le settimane della moda maschile di Londra e quella di Parigi che avrebbero presentato, a giugno, le collezioni per il prossimo autunno/inverno. Inoltre è stata cancellata l’haute couture, cioè l’alta moda, a Parigi. La settimana italiana dedicata alla moda maschile, in programma a Milano a giugno, è stata invece rimandata, così come Pitti Uomo, una delle più importanti fiere di abbigliamento maschile che si tiene a Firenze. Per finire è stato rimandato il Met Gala, il più importante evento di moda al mondo, che si tiene sempre il primo lunedì di maggio. Si svolgeranno più avanti anche i CFDA Fashion Awards, i premi della Camera della moda statunitense. È difficile quantificare i danni che comporterà lo smantellamento di questi appuntamenti. Danni economici, che si ripercuotono nel mondo del turismo e della ristorazione, danni artistici e culturali.Tempi lenti
Va detto che il sistema delle sfilate era in crisi da qualche tempo. Ormai da anni gli stilisti sono costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra. E tutti i professionisti che ruotano intorno alla presentazione delle collezioni (giornalisti, compratori, fotografi, influencer, modelle) si muovono di conseguenza. Il tutto mentre, con evidente contraddizione, si susseguono appelli e manifesti volti a sostenere una moda più ecosostenibile. Da questo punto di vista lo stop imposto dal Covid-19 può rappresentare un’occasione di ripensare il vecchio sistema, per molti versi obsoleto, dispendioso ed eccessivamente frenetico. Un’ipotesi potrebbe essere la semplificazione del calendario. Si potrebbe, per esempio, fare due sfilate principali nel corso dell’anno (quella per l’autunno/inverno e quella per la primavera/estate) e mostrarle in streaming, prendendo esempio dalla Settimana della moda di Shanghai. In parallelo si potrebbero raccogliere tutte le sfilate secondarie – vale a dire le miriadi di presentazioni internazionali che affiancano le quattro principali di Londra, New York, Parigi e Milano – in un unico evento. Certo è che, almeno per un certo periodo, il sistema delle sfilate non sarà più quello a cui il mondo della moda si era abituato.
Un segnale chiaro nella direzione della semplificazione del calendario è arrivato da Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci. In una sorta di lettera dattiloscritta, pubblicata su Instagram, il designer – che dal gennaio 2015 è a capo della direzione creativa del brand – ha scritto: «Nel
mio domani abbandonerò quindi il rito stanco della stagionalità e degli show per riappropriarmi di una nuova scansione del tempo, più aderente al mio bisogno espressivo». Di qui la decisione di «eliminare tre appuntamenti» perché fare 5 show (2 per l’uomo, 2 per la donna e 1 cruise) non è più accettabile. «Termini come ‘cruise’ non hanno più senso, oggi. Né le pre-collezioni o le quattro stagioni. Io vedo solo la primavera e l’inverno. Dunque due collezioni». Michele ha sottolineato che non intende uscire dal sistema, ma piuttosto rallentare: «Non è una secessione da altri calendari ma una dichiarazione di intenti di rallentamento: farle più tardi, per esempio, servirà anche ai piccoli che non resteranno più schiacciati da queste corse».
La ricerca di tempi più lenti (e umani) riguarda anche i punti vendita: «Ci sono gli abiti nei negozi: mi piacerebbe restassero di più. Quanto stanno le nostre belle cose in vita? Troppo poco. Voglio utilizzare ciò che c’è già: lo stile che va rispettato». Si tratta, ora, di capire quanti altri fashion brand seguiranno l’esempio di Gucci. E, soprattutto, come reagiranno i consumatori.
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