Letteratura

Misery o della follia per l’arte: intervista a Filippo Dini

22 Ottobre 2019

Che cos’è un classico? Calvino rispondeva così a questa domanda: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. E, forse bisognerebbe aggiungere, di generare infinite interpretazioni e letture. Un classico vive della sua personale fortuna e partecipa a quella delle opere, siano dello stesso o di differente genere, che da lui derivano. È certamente il caso del celebre romanzo di Stephen King Misery non deve morire. Un best seller diventato sul grande schermo film campione d’incassi e, forse proprio per questa sua fortuna popolare, guardato con un certo sospetto dalla critica più – chioso, inutilmente – austera. Tante sono state le reinterpretazioni di quest’opera, le citazioni, più o meno dirette. Misery è entrato a far parte del nostro patrimonio culturale diffuso, tanto che, anche coloro che non hanno mai letto il libro o visto il film, ne conoscono per sommi capi argomento e trama.

Oggi il regista Filippo Dini porta in scena questo racconto, in una produzione della Fondazione Teatro Due di Parma, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino, che vedrà la sua prima nazionale il 26 ottobre a Parma, per poi partire per una tournée per i teatri di tutta la penisola, basandosi sulla sceneggiatura di William Goldman nella traduzione di Francesco Bianchi.

Paul Sheldon, scrittore e alter ego di King, Annie carceriera e folle amante della sua arte, si confrontano in scena in uno spettacolo il cui centro sarà proprio la statuaria e drammatica figura di Annie, pronta a interrogare gli spettatori (ma prima di tutto gli attori stessi) sul significato dell’atto creativo, sulla potenza e il limite del successo, sul delicato rapporto fra autore, personaggio e lettore, un rapporto basato sulla magia della narrazione, che in alcuni casi può trasformarsi in sortilegio.

Abbiamo parlato di questa produzione con il regista Filippo Dini, partendo da una domanda sulle ragioni della scelta di questo testo, che rappresenta quasi un personaggio fra i personaggi a cui da vita.

Nel mio lavoro sono partito, anche per un discorso strettamente connesso alla sceneggiatura, dal film più che dal libro. L’immaginario stesso di Misery è legato, comunemente, più alla pellicola che alla carta, dato lo straordinario successo avuto nelle sale. Tutti hanno sentito parlare di Misery, quasi tutti hanno visto il film, molti hanno letto il libro. Si è trattato di un fenomeno culturale di grande portata e anche per questo il lavoro di trasposizione scenica mi ha obbligato ad un confronto su più piani, per cercare di restituire al palcoscenico la complessità del testo di King, di necessità ridotta – per tempi e modalità espressive – sul grande schermo.

Qualcuno pensa, ancora oggi, che Misery sia un prodotto culturale di tipo “commerciale”, forse proprio per il successo di pubblico avuto negli anni Novanta…

Chi lo pensa è fuori strada. Forse il film, come ho già detto, ha semplificato il discorso dell’autore, che – tuttavia – ha affrontato nel suo romanzo un tema e argomenti di grande profondità, per nulla “commerciali”. Di cosa parla Misery? Del rapporto fra un uomo sequestrato e la sua sequestratrice, certo, ma anche e soprattutto di un rapporto di dipendenza (come poteva essere quella di King per droga e alcool) che obbliga ad analizzare con attenzione la complessità psicologica dei personaggi. Annie è una carceriera, certo, ma dipende dalla scrittura di Paul e Paul a sua volta è dipendente dalla sua scrittura, dal soggetto, dall’atto creativo dello scrivere e dal rapporto con il suo pubblico, con il successo. L’artista, nel libro e nella vita, lo stesso King, è dipendente dalla sua arte. Si tratta del lato oscuro del lato creativo, nel libro incarnato da Annie. Direi che siamo ben lontani dalla mancanza di profondità…

Un rapporto, quello fra l’autore e la scrittura, che si gioca fra personaggi e libro, fra atto dello scrivere, che – quando porta al successo – può diventare addirittura un limite al mondo creativo e il mondo creativo stesso, alla base del mestiere di autore…

Quando Paul viene soccorso da Annie ha con sé un manoscritto, quel manoscritto che finalmente lo emanciperà, nelle sue intenzioni, dal personaggio di Misery e lo porterà fra gli eletti della letteratura. Annie, soccorritrice e carceriera, ha un’opinione completamente diversa: quel manoscritto va eliminato e Paul deve tornare a fare ciò che sa fare meglio, ovvero continuare a scrivere di Misery. L’idea alla base delle azioni di questo personaggio è quella di un artista che deve occuparsi di ciò che gli è congeniale, schiavo della sua arte, che però lo conduce al successo. Si tratta di una costante battaglia fra demoni: quello creativo, quello del desiderio di successo, quello delle aspettative del pubblico. In fondo è qualcosa che chiunque può sperimentare nella sua vita di tutti i giorni; tutti subiamo la pressione di un “invito” a fare ciò che ci viene meglio e a ripeterlo sempre. Non si tratta solo di pressioni esterne, ma di un’esaltazione personale – che si manifesta quando riusciamo con successo – che ci dona gratificazione, una gratificazione di cui poi fatichiamo a fare a meno. La chiamerei vanità. Annie rappresenta questa vanità, questo desiderio di “avere sempre di più”.

E questo come si relaziona con il mondo teatro? In letteratura, al cinema, il pubblico è distante. Il mezzo stesso impone un filtro che mette gli artisti in condizione di navigare in solitaria. A teatro il confronto è diretto e immediato…

Si capirà meglio quando il pubblico sarà in sala. Sicuramente il teatro è un luogo privilegiato per raccontare questo tipo di storia: il rapporto diretto con la platea è un richiamo costante alla vanità. Infatti chi si esprime davvero a livello scenico è Annie – Arianna Scommegna – più di Paul che, anche nel libro, risulta al centro, ma come soggetto pensante. Annie conduce l’azione.

In questo il rapporto con il testo sarà stato particolarmente complicato…

Sì è stato difficile recuperare la profondità di pensiero di Paul in scena, far comunicare verbalmente la mente del protagonista, ad esempio nei momenti di perdita di lucidità, durante la prigionia. Si tratta di azioni in completa solitudine, che possono essere resi, anche se non compiutamente rispetto al libro, nei monologhi. Questo vale anche per la profondità di Annie…

Una figura, quella di Annie, che ha una profondità sua di personaggio, ma anche fortemente simbolica…

Pensiamo a una delle scene nodali del romanzo: obbligato a scrivere Paul ricomincia svogliatamente il racconto di Misery, ma sbaglia l’attacco, riprendendo la narrazione non dal punto in cui l’aveva lasciata. Annie non lo può tollerare e lo accusa di aver imbrogliato, gli ricorda che deve essere leale e coerente con quanto scritto prima. In quel momento, fra la disperazione data dall’essere in balia della follia di Annie e la necessità di sopravvivere, Paul ha un’epifania: capisce a quale espediente attaccarsi per riprendere il racconto e la pagina si apre. Allora Annie si allontana, smette di osservarlo troppo da vicino, gli lascia spazio, perché ha sentito il calore creativo. Lei, incapace di creare, riconosce in lui il creatore. È qualcosa di molto difficile da rappresentare, ma di estremamente simbolico e interlocutorio. Cosa ci avvicina, d’altra parte, ad un mondo superiore se non l’atto creativo, se non questi momenti?

 

MISERY

di William Goldman, tratto dal romanzo di Stephen King, traduzione Francesco Bianchi

con Arianna Scommegna, Filippo Dini, Carlo Orlando

musiche Arturo Annecchino

scene e costumi Laura Benzi

luci Pasquale Mari

assistente alla regia Carlo Orlando

regia Filippo Dini

Produzione Fondazione Teatro Due, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

PRIMA NAZIONALE

Parma, Teatro Due, dal 26 ottobre al 3 novembre 2019

Ph. Francesco Bianchi

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