Letteratura
Milano e un poeta
Milano ha molto amato un suo poeta, Giancarlo Majorino, che l’ha molto amata, vissuta, raccontata. Majorino, nato nel 1928, è morto qualche giorno fa, a 93 anni, dopo un’esistenza vivace, impegnata, ricca di interessi e di esperienze. Laureato in Giurisprudenza, aveva svolto diverse professioni: bancario, rappresentante, bookmaker, professore di liceo, docente di Estetica alla Nuova accademia di belle arti, firmando una ventina di libri di poesia, testi teatrali, pamphlet politici, e fondando riviste, curando collane editoriali.
Dal primo volume di versi (La capitale del Nord, 1959) all’ultimo (La gioia di vivere, 2018), inframezzati da un poema la cui elaborazione era durata decenni (Viaggio nella presenza del tempo, 2008), la sua opera è stata coerentemente ispirata a una strenua ricerca sul linguaggio – interprete di una sperimentazione formale lontana dalle convenzioni e dalle mode – e a un’esplorazione attenta e critica dell’attualità, insofferente di compromessi politici, polemico con le maggioranze silenziose, solidale con gli ultimi.
Il Sindaco Beppe Sala lo ha così ricordato: “Poeta, cantore della Milano industriale, delle sue contraddizioni e delle lotte sociali del Novecento. Fondatore e presidente della Casa della Poesia di Milano e Ambrogino d’Oro nel 2007, la sua arte è storia della nostra città”.
Avevo conosciuto Giancarlo all’ultimo anno di università, quando generosamente e con lo spirito di maestro che sempre lo animava, aveva ideato una serie di incontri con alcuni studenti interessati alla poesia, che teneva nella saletta di un bar davanti alla Statale: ci proponeva testi di lettura, incoraggiandoci a scrivere e a sottoporgli i nostri tentativi di produzione di versi. In quelle occasioni, commentava con indulgente benevolenza anche le mie prime recensioni su “Il quotidiano dei lavoratori”. L’ho rivisto a Verona qualche anno fa, insieme alla sua dolce compagna di sempre, Enrica, e mi aveva raccontato con ironia del loro matrimonio avvenuto dopo quasi cinquant’anni di convivenza, e del suo tardivo incontro con il web. Vorrei allora ricordare qui il poeta, attraverso alcuni versi tratti da tre sue composizioni, scandite nel tempo, rintracciabili tutte su internet.
La prima, da La capitale del Nord (Schwarz, 1959), è dedicata appunto a Milano, e alla sua trasformazione umana e industriale negli anni del boom economico:
“O mia città vedo le porte gli archi / che un tempo limitavano il tuo cauto / intrecciarsi di case strade parchi / oggi spezzarti come una frontiera / o come una catena di pontili / congiungere le tue zone più vili / rivali o consociate in busta chiusa / dan vita o morte in crediti d’usura / legate col cordone ombelicale / del capitale e in loro trasformate / e quelle in queste ritmica simbiosi / le sedi razionali dell’industria / con l’asino alla mola e i nuovi impianti / la rapida salita la discesa / più rapida la sedia dei trent’anni / intorno curve schiene di negozi / la Galleria col tronco fatto a croce / in fondo oltre la Scala la gran piazza / Cavour congestionata la questura / la pietra dell’Angelicum trapassi / violenti e luminosi in via Manzoni / il tufo è ancora base ai grattacieli?”.
La seconda fa parte della raccolta Gli alleati viaggiatori (Mondadori, 2001), ed è la visione immaginosa e disperante delle tragiche migrazioni contemporanee, assimilate a quelle che nei millenni hanno costretto un’impaurita e affamata “acqua umana e animale” a cercare scampo dagli agguati del male:
“andavamo tutti come fosse un’emigrazione / chi per acqua chi per terra, allarmati / notammo che un leone ci oltrepassava / ma era come quando nella tundra incendiata / fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi / cos’era cosa poteva esser stato nulla ricordo / non fatti precisi non odor di bruciato migravamo / in ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi / da chi sa che mossi transitavamo nel piano sembrante discesa / così potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro / quando? in tempo e non contavano orario e luogo transitare / occorreva, altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe / quasi una lotta di molte zampe gambe / una testa bianca tra colli di giraffe / sandali orme zoccoli nella sabbia / con famiglia a fianco bimbo su bici / gara di motocicli chiatte e scafi accanto / una universale processione forte respirante / sbandata ma diretta senza macchine da presa / o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa / eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti / cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto? / la mandria pelosa che panicata quasi s’ingoiava? / la coppia remante arti e respiro sotto forte ipnosi? / il caduto rischiava tutto ma / capitava e dopo un grido d’aiuto / quasi tranquillizzato si chetava / trafitto schiacciato / trafitto schiacciato, per le mosche / i fastidiosi insetti non v’era tempo / di notarli, né i canterini uccelli / dardeggianti vi saranno stati / non era il momento di ricercarli non era il momento / andava come l’acqua un’acqua umana / e animale a non si sa che pozzo tentando / abbandonando non si sa che male”.
Infine la terza, compresa in La gioia di vivere (Mondadori, 2018), ancora esprime un netto e severo giudizio politico e morale sulle differenze di classe, sui soprusi patiti da chi chiede aiuto e non lo riceve:
“davvero bell chiaro troppo / di non so quanto / e soltanto chi sta sotto / potrà comprendere rivivere / sia Gesù sia Marx l’han detto // e poesie non notizie (dopo, dopo) / nonché ’l cervello di uno dei ceti medi / come qui può cominciare a scrivere / chi sta sopra non può dirigere niente / chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile // ma poi quando un uomo grida aiuto / un uomo una donna una vecchia un bimbo / è come se il mondo si fermasse / case mute zitte finestre chiuse / tutto ciò parla o urla o tace sale s’agita”.
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