Letteratura

Massimo Sideri e la sindrome di Eustachio: ci ricordiamo di essere innovatori?

13 Aprile 2018

“Perché una storia italiana dell’innovazione e non una semplice storia dell’innovazione italiana?” È con questa domanda che inizia La sindrome di Eustachio di Massimo Sideri (Bompiani), giornalista del Corriere della Sera.

La malattia cui Sideri si riferisce prende il nome da Bartolomeo Eustachi, detto Eustachio, anatomista e docente universitario (insegnò a Roma alla Sapienza dal 1555 al 1568) marchigiano vissuto nel sedicesimo secolo. Effettuando osservazioni sui cadaveri, lo scienziato scoprì un condotto che collega l’orecchio medio alla faringe. Questa parte del corpo si chiama proprio tromba di Eustachio. “Purtroppo” specifica Sideri “consegnatolo all’eternità, tutti si dimenticarono di lui. Il suo è solo uno dei casi, non il primo e non l’ultimo, di un lungo Spoon River di innovatori dimenticati dalla propria stessa patria”. Il morbo, che “vale solo per la nostra scienza”, può essere così riassunto: “Siamo sempre pronti a riconoscere i risultati di altri scienziati con diverso passaporto, almeno quanto ci mostriamo dubbiosi sui nostri”.

Una volta spiegato il significato del titolo dell’opera, può apparire più chiara la distinzione tra “storia italiana dell’innovazione” e “storia dell’innovazione italiana”. Nell’arco della trattazione, Sideri ci spiega come quelle due espressioni siano legate fra loro ma non del tutto sovrapponibili. Nel libro si parla anche della seconda, intesa come tuffo nel passato alla ricerca delle più importanti invenzioni e scoperte italiane. Ma il fulcro, il vero senso dell’opera di Sideri sta nella prima, nella storia “italiana” dell’innovazione.

L’aggettivo “italiana”, in questo caso, evidenzia il modo cui l’opinione pubblica nostrana ha dimenticato, e spesso ignora tuttora, i propri talenti migliori. E sottolinea anche l’atteggiamento auto-denigratorio di tanti italiani che, confrontando gli standard scientifici-tecnologici del proprio Paese con quelli degli altri, valutano lo Stivale più arretrato di quanto davvero non sia. “L’innovazione” scrive Sideri “è stata a lungo italiana e lo è ancora, ma schiacciati come siamo dalla propaganda da Silicon Valley – che confonde consapevolmente innovazione con successo commerciale – ce ne siamo dimenticati”. Certo, rispetto a qualche concorrente internazionale “non saremo bravi a fare soldi nell’era digitale, va bene. Ma questo non vuol dire che non siamo stati e non siamo ancora grandi innovatori”.

Si tratta, dunque, di un problema di memoria collettiva. Non a caso Sideri cita Indro Montanelli, il quale sosteneva che “un Paese che ignora il proprio ieri di cui non sa assolutamente nulla, di cui non si cura di sapere nulla, non può avere un domani. Ricordo una definizione dell’Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e benefattore, Ugo Ojetti, il quale mi disse: ma tu non hai ancora capito che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri?”.

E allora via, con una lunga carrellata di inventori e innovatori italiani finiti troppo presto nel dimenticatoio e ai quali fare giustizia, fra storia e aneddotica.  Certo, non sempre i concetti espressi da Sideri sono condivisibili. Ad esempio, nel capitolo intitolato Ricerca, povera ma bella l’autore asserisce: “Se guardiamo alla qualità della nostra ricerca ‘in termini di numero di pubblicazioni scientifiche e citazioni, l’Italia mantiene un elevato profilo di competitività a livello globale’, scrive il recente rapporto del think tank Ambrosetti sulle life sciences. ‘Le pubblicazioni italiane citate sono pari al 3.8% delle pubblicazioni mondiali; ciò porta il nostro paese a classificarsi dentro le prime dieci posizioni'”. In realtà valutare la qualità della ricerca in base al numero di pubblicazioni e di citazioni è un’operazione rischiosa, che il mondo accademico sta iniziando a rifiutare.

Nonostante qualche svista, il messaggio e l’intento di fondo del libro sono chiari e condivisibili. Oggi l’Italia è un Paese naturalmente innovatore (in teoria),  che nella pratica non lo è per nulla. Eppure “i settori di eccellenza in Italia ci sono: le biotecnologie, le nanotecnologie, la robotica. La grande bellezza della ricerca è dietro l’angolo. Il segnale che i nuovi Meucci ci sono c’è, ma che si possa sostenere il mondo dell’innovazione, della ricerca e delle start up senza grandi quantità di finanziamenti è una favola che si ascolta solo in Italia”.

Non resta che augurarsi che il messaggio venga finalmente compreso nelle alte stanze governative, dove si può agire in modo concreto per migliorare la situazione.

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