Letteratura
Mario Quattrucci, Troppo cuore. L’ultima inchiesta del commissario Marè
La parola da cui partire per intendere, manzonianamente, il sugo della storia è l’attributo “ultima” riferito all’“inchiesta”. Del commissario Marè, certo, apparentemente, anzi illusoriamente, sbattuto là, sulla coda del titolo, per confondere le acque. Ovvio che, trattandosi di un’inchiesta giudiziaria, il commissario Marè, che la conduce, anche se poi muove altre pedine, sia non solo l’attore – sì, l’attore, la maschera principale, colui che muove le fila stesse dell’indagine. L’autore, invece, che lo manda allo sbaraglio, è alluso per allegoria. Dietro le quinte o, meglio, dietro le righe. Quasi come una narrazione autobiografica per interposta persona.
Ma, come nel Pasticciaccio di Gadda, e nelle ultime quasi borgesiane inquisizioni di Montalbano, il delitto – di cui né il commissario né il suo reticente scrittore, come se parlasse per interposta persona, sembrano inorridire, è solo la faccia apparente, la maschera superficiale di un crimine più diffuso, più profondo, che inquina per intero tutta la vita sociale dei personaggi, a loro volta maschere, o – chi sa – specchi, del lettore, dell’ “ipocrita” lettore che vi si dovrebbe riconoscere, più che fratello, complice. La reticenza dello scrittore allude proprio a questa complicità. Diradiamo la sciarada.
E’, questo, forse, il libro più amaro di Quattrucci. Quasi un tirare i conti, non già della propria vita, ma della vita del paese in cui è nato: niente, perciò, sembra oggi piacergli di questo paese. Se serve uno straccio di spiegazione, lo dice anche con i versi di canzoni famose cantate da interpreti famose. Come questi da una canzone di Billie Holiday: “I’ll never be the same / There is such an ache in my heart”. Heart, cuore. La parola del titolo, troppo, sempre troppo. La reticenza, in fondo, è una forma di difesa. A guardare il mondo con il cuore non è, infatti, che la sua figura si deforma, come in un quadro di Francis Bacon, che anzi essa appare in tutta la sua bruttezza e quell’occhiata può perfino portare al crimine. Ogni capitolo ha per esergo il testo di una canzone. Billie Holliday sta nel 18° capitolo.
Uno dei personaggi chiave del romanzo – e della vicenda – dice a un certo punto: “Siamo in una crisi profonda, Marè. Di sistema, di civiltà …, culturale: dello spirito pubblico. E’ crisi della democrazia, disaffezione, distacco dallo Stato, lacerazione della società civile e abbandono”. Lo stesso personaggio, una gallerista, poco prima, a proposito di Francis Bacon, aveva detto: “La deformazione, sì. E’ quella che delinea più di un Rembrandt l’anima dell’Uomo … e del mondo perciò. – Siamo tutti così? – chiede il vecchio. – Più o meno, senza scampo. La nostra doppia natura … – riprende la signora. – E ciascuno di noi, ci dice Bacon, è quel contorto groviglio che svelato, o se si mostri in qualche modo, sconvolge i nostri tratti. E ciascuno lo ha dentro quel dolore …quel terrore e orrore …, che ci rendono capaci di ogni cosa: sublime o maledetta”. Poco più avanti, sempre lo stesso personaggio: “Ma io non credo che la deformazione di Bacon voglia indicare soltanto la compresenza del male … No: io penso che egli voglia piuttosto parlarci del dolore, della sofferenza, della contraddizione che ognuno di noi …, e la vita …, porta in sé. E non solo di ciò che è dentro di noi, intrinseco all’individuo, ma di quanto ci è inflitto dall’esterno”.
La gallerista, Marella (il nome sembra una variante femminile del nome del commissario, e forse non a caso), ha un ruolo fondamentale nel romanzo, è anzi la chiave che lo spiega, madre di uno dei sospettati del delitto. Perché il romanzo si apre subito con un delitto, anzi con un cadavere: quello di un’avvenente, affascinante e avviluppante cantante di jazz, la gezzista, come la chiamano molti, Angela, in arte Angelica. Anche qui: nomen omen. Intorno a lei, alla ricostruzione della sua vita si muove tutto un mondo solo apparentemente normale, tranquillo, innocente, che ama l’arte e la musica. Circola, invece, cocaina, si traffica con organi di bambini rapiti, si specula sui finanziamenti di società benefiche. Il compito del commissario è di scolpare il primo sospettato subito indagato dalla polizia. Che naturalmente è quello sbagliato. Il romanzo è un racconto d’inchiesta e dunque non si può dire troppo per non rovinare l’effetto, davvero sorprendente – ma poi non eccessivamente – della soluzione finale.
Attraverso la Roma che appare, Monti, San Saba, c’è la Roma scomparsa. E c’è la lingua dei romani, e quella lingua italiana romanizzata, che rende così caratteristica la prosa di Quattrucci, anche se qui meno invadente che negli altri suoi libri. Anche il ritmo della prosa è, infatti, lento, riflessivo, trasuda tristezza per ogni sillaba. Come la vicenda che racconta. E c’è sfoggio di cultura, di letteratura, di arte, ma per vie indirette, sulla bocca dei personaggi. L’altra cultura, quella che ha forgiato questa prosa e lo sguardo dello scrittore sulla vita, è più nascosta, va letta tra le righe, nell’attributo insolito, nel nome buttato lì che improvvisamente risveglia, in chi abbia frequentato il mondo romano del cinema e della musica, improvvise accensioni del ricordo, ferite mai rimarginate, quasi prustiane intermittenze del cuore (sempre lui!). Sì, prustiane, come direbbe Marè. Per esempio: Maria Pia Fusco.
Mi si permetta un ricordo personale. Festival di Spoleto. Ristorantino raffinato, ma familiare. Lo stesso dell’albergo in cui sono alloggiato. Scendo e mi siedo a un tavolo. La proprietaria – amica da anni – mi illustra i piatti del giorno. E’ notte inoltrata, dopo lo spettacolo. Alzo lo sguardo, e al tavolo di fronte scorgo Maria Pia con un’amica. Le invito al mio tavolo. Parliamo e beviamo fino a notte fonda, la bottiglia di vino regalata dalla proprietaria. Una vita di spettacolo scorre via dalle bocche, e pettegolezzi di giornale – Maria Pia scriveva sullo stesso giornale per il quale scrivo anch’io – ridiamo, alziamo troppo il gomito, e rientriamo più che alticci ciascuno nella sua stanza. Che c’entra con il romanzo di Quattrucci? si domanderà il lettore. Il fatto, niente. Ma il modo del ricordo, tanto. Così come la ferita al cuore.
Di nuovo, sempre lui. Tutto il romanzo, infatti, vive di questo continuo sussultare dei ricordi, perfino l’inchiesta scava nei ricordi della donna morta ammazzata. E, appena nominato, ogni luogo risveglia memorie, ogni figura richiama somiglianze, speranze tradite, paure avveratesi. Quattrucci racconta un delitto, o meglio le indagini sull’attore, più che sull’autore, di un delitto. E attraverso le ipotesi di assassinio prende corpo l’assassinio di una società, il seppellimento di una cultura. Chi ha compiuto il crimine di ammazzare la cantante può, forse, finire dietro le sbarre, ma il crimine collettivo che ha demolito una società, come lo si potrà punire, isolare, rinchiudendo un intero popolo in un carcere di massima sicurezza? Ed è di questo crimine, che attraverso la maschera dell’assassinio della gezzista, ci parla, in questo bellissimo, amarissimo romanzo, Quattrucci. E ci lascia con la bocca amara, il cuore – eh sì! di nuovo lui! – pesante, stramazzato per terra, troppo grave, troppo sfracellato, per tentare di raccoglierlo.
Mario Quattrucci, Troppo Cuore. L’ultima inchiesta di Marè, Robin Edizioni, 2018, pagg. 312, € 15,00
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