Letteratura
Mariella Medea Sivo racconta le sue favole senza finale felice: l’intervista all’autrice
La scrittrice presenta questa sera a Bitonto il suo primo libro, edito dalla SECOP Edizioni
Sei al tuo esordio letterario: cosa significa per te pubblicare questo primo libro?
A essere sincera non vivo la pubblicazione di Favole senza finale felice di una ragazza nata negli anni ‘70 come il mio esordio letterario. Perché, se pur non come autrice ma come editor, ho all’attivo già diverse pubblicazioni. Certo, l’emozione di scendere in campo con nome e cognome è diversa. Ho dato alle stampe la mia creatura di carta, un libro che porta con sé il mio patrimonio emotivo e culturale. E’ il figlio avuto in tarda età che mi rende molto apprensiva, lo vedo così indifeso, privo di prefazioni e postfazioni importanti a proteggerlo dall’indifferenza generale, lanciato temerariamente nell’oceano delle pubblicazioni di chi ha più voce di me, umilissima e per niente ambiziosa “ragazza” nata negli anni Settanta. Ma, voglio sottolinearlo, la sua venuta al mondo non è fine a sé stessa, ma proiettata verso la promozione di una collana di narrativa dedicata alle voci femminili fortemente voluta dalla casa editrice Secop. Questa collana si chiama I libri di Medea e a me l’onore di dirigerla. Ecco, pubblicare questo libro per me significa aprire un nuovo interessantissimo e stimolante capitolo esistenziale e professionale.
Chi sono i protagonisti delle tue favole senza finale felice?
I protagonisti delle mie favole sono in realtà protagoniste, sono donne che accolgono la vita nella sua complessità, donne che non accettano con atteggiamento mellifluo il proprio destino, ma se lo scelgono e lottano per modificarlo, anche quando sembrano essere sopraffatte dalle vicissitudini, risucchiate negli ingranaggi famelici di una società che risente ancora dell’impronta patriarcale.
Cosa non rende felice il finale di queste storie?
Il titolo è provocatorio, vuole rompere gli schemi. Le ho definite “senza finale felice”, per il fatto che non è prevista l’entrata in scena di un principe azzurro, così come le favole classiche della nostra infanzia, edulcorate dalla retorica disneyana, ci hanno inculcato. Il termine “favola” porta con sé implicita l’aspettativa del finale vissero felici e contenti. Le mie favole non escludono una soluzione positiva, ma di certo differente rispetto a quelle che hanno fatto strage nell’inconscio collettivo. Insomma, quello che voglio indicare (non insegnare, perché compito della letteratura non è questo) è che non si ha bisogno di vivere in una bolla rosa a due piazze per essere felici. Ciò di cui abbiamo bisogno è vivere a modo nostro, costruire relazioni indipendenti e sane, appropriarci del nostro destino.
Un lieto fine potrebbe essere possibile?
Certo che sì! Come ho appena detto, il lieto fine ce lo dobbiamo conquistare attraverso l’autonomia, l’indipendenza emotiva, la consapevolezza del nostro essere al mondo. Le mie favole lo lasciano intravedere, persino quando tutto appare avvolto dalle tenebre. Il lieto fine è il risultato di un percorso di conoscenza, è uno strabiliante incantesimo, quello dell’amor proprio, perché solo attraverso di esso possiamo garantire a noi stesse la strada lastricata d’incanto, forza creativa capace di rendere la realtà frutto delle asserzioni della coscienza e della volontà.
Cosa accomuna, oltre l’assenza di un happy end, ciascuna storia?
Tutte le storie sono accomunate dalla presenza della speranza, una minuscola fonte di luce anche nel buio più pesto. E poi c’è la costante presenza della lettera M, che è l’iniziale del mio nome, del mio nome d’arte, ma anche di parole come mare, magia, madre, malattia, mente,… La emme è una lettera capace di mantenersi in equilibrio su tre zampe, come quegli animali che ne hanno persa una ma ugualmente corrono felici. E’ una specie di stella marina che ha lasciato cadere uno dei suoi bracci per generare una nuova stella. I nomi delle protagoniste inziano quasi tutti con la emme. E’ il mio sigillo.
Sei molto impegnata in temi come la lotta alla violenza sulle donne: quanto questo tuo impegno confluisce nella tua scrittura?
Confluisce tutto. L’intero libro è dedicato alle donne, affinché sappiano riconoscersi e smarcarsi dalle briglie emotive, sociali e culturali che ne rallentano l’emancipazione e il percorso di vita. Vi è un racconto in particolare, X gocce di Valium, che mostra la violenza fisica e psicologica in tutto il suo crudo squallore. La violenza di genere è un tema sempre presente nella letteratura, sin dai tempi più remoti. Si pensi ai rapimenti divini di Europa e Persefone, ad esempio, ma anche ai soprusi mortali come quello subito da Lucia Mondella nei Promessi sposi. La differenza è che, mentre ieri era pura narrazione, oggi parlarne, scriverne, è denuncia, si pone l’obiettivo di mantenere l’occhio di bue acceso e puntato sul fenomeno, cioè sul controllo esercitato sulle donne dalla società.
Da dove attingi ispirazione per storie e personaggi del tuo libro?
La mia ispirazione è nella realtà che mi circonda, nel saper ascoltare gli altri. Ho imparato ad ascoltare nella primissima infanzia, attorniata da donne dalla grande capacità affabulatoria: mia madre, le mie zie, mia nonna. Tutte mi hanno trasfuso storie, hanno solleticato la mia fantasia e allenato la mia empatia. Poi ci sono state le amiche, le vicine, le pazienti, le compagne di viaggio in treno, delle semplici conoscenti. Abbraccio molto l’atteggiamento di Zola. Emile Zola era molto attento al mondo intorno a lui, animato da una smodata voglia di descriverlo e capirlo. Era un anatomista dell’umanità. Mi piace molto questa definizione.
Nel titolo parli di una ragazza nata negli anni ’70: cosa significa essere nata in quegli anni?
Essere nata nel 1970 implica l’aver ereditato la prosecuzione delle lotte del ‘68. Voler revisionare e rimodulare i parametri della nostra società nella direzione della giustizia sociale. Ricordi il famoso slogan “Questo non è che l’inizio, continuiamo la lotta”? Ebbene, io l’ho fatto mio alla luce della volontà di costruire con fatica, pazienza, tenacia, umiltà, un mondo migliore rispetto a quello che ho ricevuto, soprattutto un mondo che sia sottratto alle logiche del potere e della violenza. Essere una ragazza nata negli anni ‘70 vuol dire per me attraversare l’esistenza da militante.
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