Letteratura

Mariana Enriquez, La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo

3 Ottobre 2018

In Italia non si riesce a immaginare che cosa fosse la vivacità culturale di Buenos Aires nella prima metà del Novecento, e oltre. Come New York, Buenos Aires concentra i suoi teatri in una sola strada, Corrientes. Ma a differenza di New York, in quella strada esistono anche molte librerie e alcune case editrici. Le librerie restano aperte anche dopo la fine degli spettacoli. Così lo spettatore al quale sia piaciuta la commedia, il dramma che ha appena visto, può entrare nella libreria accanto al teatro, e comprarsi il copione, e poi, magari, sbirciando qua e là, tra gli scaffali stracolmi, anche altri libri. Intorno ci sono anche numerosi ristoranti, qualcuno eccezionale. E taluni aperti fino alle 4 del mattino.

Nelle strade adiacenti a Corrientes sono ubicati i teatri sperimentali, quelli che a New York sarebbero off, e off off. Durante la terribile crisi, che mise l’Argentina in ginocchio, i settori che non l’hanno sofferta furono non a caso i cinematografi, i teatri e le librerie. I teatri e i cinematografi erano pieni, e i libri si vendevano più di prima. Gli argentini rispondevano alla crisi consumando più cultura. Anche adesso, che un’altra crisi devasta il paese, mi dicono che succede lo stesso: i teatri sono pieni. E così pure le librerie.

Ma Buenos Aires è anche una città internazionale, e non solo per la provenienza degli emigranti da diversi paesi dell’Europa, moltissimi gli italiani, e molti anche tedeschi ed ebrei dell’Est europeo, francesi e, naturalmente, spagnoli. Oltre agli inglesi che nella prima metà del secolo scorso detenevano il controllo dell’economia argentina. Pertanto, soprattutto nelle famiglie benestanti, e quella degli Ocampo fu da sempre ricchissima, era, ed è, naturale la conoscenza di più lingue, oltre allo spagnolo, soprattutto inglese, italiano, francese, ma non è rara la conoscenza del tedesco. La curiosità letteraria fa inoltre parte della disposizione culturale degli argentini fin dal secolo XIX, soprattutto dopo il 1810, anno della dichiarazione d’indipendenza dalla Spagna.

Alcuni scrittori sono diventati anche presidenti della Repubblica, come Domingo Sarmiento (1811-1888) e Bartolomé Mitre (1821-1906). Il modello a cui guardavano gli scrittori romantici, prima, e naturalisti, dopo, era naturalmente la Francia. Ma con più di un occhio aperto a quanto accadeva nelle lettere britanniche. Nel 2016 è uscito per Anagrama il bellissimo romanzo Echeverría di Martín Caparrós, scrittore argentino nato a Buenos Aires nel 1957. Esteban Echeverría è il poeta e narratore che ha dato l’avvio a una letteratura nazionale, orgogliosamente argentina, autonoma rispetto alla letteratura della madrepatria spagnola, e che guardava ai modelli più moderni della Francia. Il romanzo comincia con il giovane che guarda la pistola con cui vuole suicidarsi. Ha letto il Werther di Goethe e crede che il suicidio sia la soluzione per finirla con la sua infelicità. Il monologo interiore del poeta dura per decine di pagine, la pistola sempre in pugno. Per sua e nostra fortuna non si uccide. E scrive, anzi, due capolavori: La cautiva, la prigioniera, romanzo in versi come l’Evegenij Onegin di Puškin, e El matadero, il mattatotio, straordinario racconto della feroce e sanguinaria dittatura di Rosas, sorta di saggio su come s’impone e come funziona una dittatura. L’Argentina ne ha fatto prova più di una volta. Echeverría, nato a Buenos Aires nel 1805, morì in esilio a Montevideo nel 1851.

 

Ma veniamo al secolo di questa ”hermana menor”, sorella minore. E’ Silvina Ocampo, sorella di Victoria, la fondatrice della rivista Sur, sud, focolaio vivacissimo della cultura argentina del Novecento. Silvina nasce e muore a Buenos Aires, 1903 – 1994. Percorre dunque l’intero secolo. Sposa Adolfo Bioy Casares, l’autore dell’Invenzione di Morel, uomo affascinante e inguaribilmente attratto da tutte le donne che gli capita d’incontrare. Silvina si vedrà così le amanti del marito gironzolare per casa, senza nascondersi, senza vergogna. Di qualcuna diventa, si dice, anche lei l’amante. Quasi certamente lo fu della madre di Adolfo, che anzi fu proprio lei a buttarle tra le braccia il figlio. Si racconta anche che si sarebbe portata a letto la nipote, Silvia Angélica, Genca, già amante del marito, un ménage à trois di allegra disinvoltura. Certo, la società in cui viveva era spregiudicata, libera, ignorava i problemi di genere, un po’ come il circolo di Bloomsbury che ruotava intorno a Virginia Woolf.

Gli Ocampo, si è detto, erano ricchissimi, straricchi. Una privilegiata? Sì, e allora? Lo sapeva e usava il privilegio per guardare disincantata la realtà. Era anche appassionatamente antiperonista. Quando viaggiavano in nave verso l’Europa (Silvina aveva paura dell’aereo), e andavano soprattutto Parigi, i genitori si portavano dietro una vacca, perché ai bambini non mancasse il latte fresco ogni giorno. Profondamente radicati nella società argentina, o meglio nella società dell’alta borghesia di Buenos Aires, ma internazionali, poliglotti, aperti alla modernità. Le case, enormi, appartamenti di 800 metri quadrati nel centro di Buenos Aires, e le ville, nella periferia chic della capitale, e a Mar del Plata, venivano arredate da Le Corbusier e da Gropius. L’inglese, del resto, è la lingua quasi materna di Silvina, che l’apprende prima ancora dello spagnolo. Si aggiungerà il francese, ma anche l’italiano.

L’ambiente letterario di Buenos Aires era internazionale e poliglotta, certamente di più che quello di New York. Diventa l’amica inseparabile di Borges, che andava a cena da lei quasi tutte le sere. Borges era già amico di Bioy Casares, e dunque entrava in qualche modo in un ambiente familiare.

Silvina conosce Cortázar e Puig, Sábato, Rodolfo Wilcock e altri intellettuali argentini. Ma anche stranieri. Amava la pittura, dipingeva lei stessa. Anzi, da bambina pensava di fare la pittrice. A Parigi chiede a Picasso di darle lezioni di disegno. Ma Picasso rifiuta. Non amava dare lezioni di pittura. Allora si rivolse a Léger, che ammirava molto. Ma anche Lèger si tira indietro. Alla fine prende lezioni da De Chirico. Non simpatizzarono. Ma da de Chrico apprese la capcità di uscire dal reale, d’immaginare e raccontare storie trasversali, anche crudeli, quel fantastico, o surreale, così tipico della narrativa latinoamericana.

Carlos Fuentes, straordinario scrittore messicano, di cui Silvina fu amica, si avvicina al mondo visionario della scrittrice argentina in un romanzo enigmatico, fantastico, e feroce, come La silla del Águila, Il seggio dell’Aquila, malamente tradotto in italiano con Il trono dell’Aquila che distorce il senso del titolo, perché non si tratta di un trono, ma del seggio del Presidente della Repubblica Messicana.

Ma la dimensione del romanzo non è quella della scrittura di Silvina Ocampo: la sua misura è il racconto, spesso breve, come per Borges. Ma Silvina è anche poeta. Qualche settimana fa ho pubblicato qui, su questo sito, otto poesie. E un breve commento. Il libro di Mariana Enriquez ha per sottotitolo “un retrato de Silvina Ocampo”. Un ritratto, non una biografia, né tanto meno un saggio critico. La scrittrice, nata anche lei a Buenos Aires nel 1973, raccoglie diverse testimonianze, tra cui anche quella del marito Bioy Casares, grafomane impenitente, che teneva un diario in cui annotava tutto, giorno per giorno, ma proprio tutto, scrivendo migliaia di pagine, ciò che accadeva nella sua casa, gli incontri, le discussioni, gli amori, le amicizie. Era assai più giovane di Silvina, ma le restò attaccato tutta la vita, a suo modo, l’amava profondamente, la malattia che negli ultimi anni precipitò Silvina nella demenza, e poi la sua morte, lo sconvolsero, distrussero la sua tranquillità per sempre. Ma la Enriquez introduce in questo ritratto di Silvina anche le interviste, fondamentale quella rilasciata all’amica Noemí Ulla.

 

Il ritratto di Silvina disegnato dalla Enriquez procede per argomenti, ci sono retrospettive, previsioni, premonizioni, Silvina era una sensitiva, si credeva d’indovinare il futuro, leggeva le carte, ma non i Tarocchi, bensì i naipes spagnoli, il racconto è interrotto da flash back, si intrecciano testimonianze di amici e di altri scrittori e scrittrici. Prosa scorrevole, stile accuratissimo, come quasi tutto ciò che oggi si pubblica in spagnolo. Ecco un episodio che dipinge assai bene il carattere di Silvina.

Racconta María Esther Vázquez, donna di cui si innamorò Borges, non ricambiato: “Vino a Buenos Aires un periodista italiano joven, de un diario de Lecce, venía a entrevistar a Borges, Bioy y Silvina. Se alojaba en mi casa. Me pidió conocerla a Silvina. Era un 9 de julio. La llamé y nos invitó a tomar el té. La mesa, como siempre en casa de los Bioy, era muy parca, dos o tres biscochitos, alguna medialuna. Habìa tres televisores. Le pregunté para qué. Es que cuando mis nietos comen acá cada uno quiere ver un programa diferente, entonces les hemos puesto un televisor a cada uno, me explicó. Ella miraba mucha televisión. Le gustaban Los tres chiflados, Benny Hill y Laurel y Hardy. La hacían reir a gritos. Con sus nietos veían a Los Muppets. Bueno. Ella enseguida quedó encantada con el italianito. Él me dice por lo bajo ‘no hay azúcar’. Le digo ‘tenés azúcar’, Silvina, con ese modo muy particular, dice ‘ay, voi a ver’. Se levanta, se va, y al rato vuelve, se apoya en la puerta que daba al comedor como se apoyan las divas del cine mudo. Nos mira y nos dice: ‘Las hormigas se comieron todo el azúcar’. Eso la define perfectamente. Creaba una especie de misterio que no tenía que ver con ninguna lógica”.

(Venne a Buenos Aires un giovane giornalista italiano, di un giornale di Lecce, veniva a intervistare Borges, Bioy e Silvina. Alloggiava da me. Mi chiese di conoscere Silvina. Era un 9 di luglio – festa nazionale argentina – , la chiamai e c’invitò a prendere un tè. La tavola, come sempre a casa dei Bioy, era molto parca, due o tre biscottini, qualche cornetto. C’erano tre televisori. Le chiesi perché. E’ che quando i miei nipoti mangiano qui ciascuno vuole vedere un programma differente. Allora gli abbiamo messo un televisore per ciascuno, mi spiegò. Guardava molto la televisione. Le piacevano I tre marmittoni, Benny Hill e Stanlio e Ollio. La facevano scoppiare dal ridere. Con i suoi nipoti vedevano I Muppets. Bene. Restò subito incantata dall’italiananuccio. Lui mi dice a bassa voce “non c’è zucchero”. Le dico “hai lo zucchero”, Silvina, con quel modo molto particolare, dice “oh, vado a vedere”. Si alza, se ne va, e subito ritorna, si appoggia alla porta che dava sulla sala da pranzo come si appoggiano le dive del cinema muto. Ci guarda e ci dice: “Le formiche hanno mangiato tutto lo zucchero”. Ciò la definisce perfettamente. Creava una specie di mistero che non aveva a che vedere con nessuna logica).

Scrive Borges: “Yo sospecho que para Silvina Ocampo, Silvina Ocampo es una de tantas personas con las que tiene que alternar durante su residencia en la tierra”.

(Sospetto che per Silvina Ocampo, Silvina Ocampo è una delle tante persone con le quali deve alternarsi durante la sua residenza sulla terra).

E’ un ritratto, nella sua brevità, perfetto, di una delle più grandi scrittrici del Novecento, del secolo breve, che per lei fu lunghissimo. Mi auguro che presto se ne faccia e se ne pubblichi una traduzione italiana.

Mariana Enriquez, La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo, Barcelona, Editorial Angrama, 2018, “Biblioteca de la memoria”, pagg. 187.

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