Letteratura
Malinconia
Ha scritto Pietro Citati:
“la malinconia si distingue per tre gesti: il mento sulla mano, che indica la pensierosa riflessione sulla precarietà della vita, la pesantezza del corpo e l’assenza dello spirito; il gomito sul ginocchio, che riporta a ricordi lontani di istantanee ormai sfiorite; l’occhio che non vede, perché guarda dentro se stesso, nei paesaggi dell’anima.”
“Quando la malinconia scende – scrive il grande critico letterario – su di noi all’improvviso, la nostra prima sensazione è di essere rinchiusi in un carcere. Il carcere non ha fori, aperture o finestre: non ci sono che mura, mura, altissime mura. Non c’è nessuna via d’uscita: nessuna via d’entrata. Siamo lì e non vediamo nemmeno una pietra, perché l’occhio è fisso verso il nostro interno. Eppure dentro quelle mura chiuse, la malinconia non smette di sgorgare, di fluire, di inondarci, di farci parlare. Prende la sua fonte nello Stige del nostro inconscio, nella bile nera, nello spleen, come si dice in inglese.”
Così ci ricorda Diderot, che richiama la malinconia in una figura claustrale di una religiosa, “La Monaca”, bellissimo romanzo che narra di una fanciulla coartata a suora e rinchiusa in un convento e sempre alla ricerca dell’amore negato.
La malinconia è la passione della lentezza.
Il sole si arresta in cielo: tutto corre freneticamente e noi non riusciamo mai a raggiungere quei perenni fuggiaschi che siamo noi stessi.
Così spesso la malinconia si richiama all’ora del meriggio, ove siamo inondati dalla sonnolenza, l’accidia, la spossatezza. “Ma verso l’ora del meriggio, ricorda Nietzsche, quando il sole incombeva proprio sul suo capo, Zarathustra passò vicino ad un vecchio albero curvo e nodoso, cui tutto intorno fioriva il prodigo amore d’un ceppo di vite, che lo nascondeva a sè stesso; pendevano dall’albero, offrendosi al viandante in copia, grappoli dorati.
Provò allora desiderio di estinguere la sua sete e di spiccare un grappolo; ma mentre stava per stendere il braccio un altro desiderio più intenso lo colse: sdraiarsi all’ombra dell’albero, nel pieno meriggio e dormire, per vedere l’Eterno nella goccia di rugiada che cade su tutte le cose terrestri.”
Baudelaire ritrova la malinconia collegata al sentimento del bello, perché il bello deve avere una venatura di tristezza: la testa di una bella donna conferisce la sazietà allo sguardo, ma anche la tristezza, quando allo specchio si vede la consunzione del tempo.
Perché anche lo specchio, “trappola di cristallo”, richiama la malinconia. Si vede, dice Baudelaire, in un cigno nel suo lungo ed esile collo che guarda verso il cielo, invocando un’acqua tersa che porti via l’aridità della terra e dei nostri sentimenti e nel pianto di Andromaca che rimembra il suo dolce e caro sposo: Ettore.
“La malinconia è pesantissima e leggerissima – come diceva Leopardi, che la chiamava “noia” e scriveva che aveva “la natura dell’aria”: “tenuissima, radissima e trasparente”. “I migliori momenti dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia; chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle illusioni e inclina alla malinconia”; chi è malinconico non sopporta intorno a sé la frivolezza e la gioia insulsa, perché la malinconia conferisce la consapevolezza del finito.
Per i greci un dio regnava sopra i malinconici: Saturno, che ha inventato il tempo che deve passare inesorabile e lasciare il buio dentro, per una passione d’amore finita che faceva ardere il sangue e l’anima.
Il tempo poi fa sentire il vuoto, la languidezza delle voci, la fiacchezza delle mani e delle gambe, la pesantezza del piede.
Ogni scintilla si spegne nell’anima del malinconico.
Quando il malinconico si sveglia, cerca, ansimante, un raggio di sole che possa penetrare dalle persiane.
Il malinconico si alza, sperando nella gioia, si affaccia alla finestra, mentre da lontano ascolta desideroso i rumori della città e del movimento della vita, che vorrebbe possedere, ma non ne ha la forza e la pulsione di apprenderli; agogna alla nettezza di contorni, all’ammirevole ricchezza di colori. Ma ai suoi occhi c’è il buio, il disordine.
Il malinconico ignora la vita lineare e limitata degli altri esseri umani. Obbedisce al ritmo del ciclo: passa di continuo dall’abbattimento all’esaltazione, dal torpore all’euforia, dalla desolazione all’estasi, dall’ombra al colore. Non è altro che ondulazione e capovolgimento.
Un uomo come il malinconico, così polare e paradossale, non sopporta la ripetitività della vita degli altri uomini, dominata dal battito uguale degli orologi .
Marsilio Ficino ripete che Dio rivela soltanto ai figli di Saturno, i malinconici, i misteri della terra e del cielo.
Kant aggiunge che soltanto la malinconia è sublime.
Spesso, si tratta di una condizione terribile. Mentre gli altri uomini sono protetti da una specie di equilibrio, il malinconico conosce in ogni istante l’alternanza, la contraddizione, la dismisura, lo squilibrio, la rottura, l’eccesso: malinconia, dolore interminabile, sovrumana felicità, disperato gelo, totale tenebra, desiderio di luce.
Vive nell’ombra, col rimpianto dell’età dell’oro, che talvolta riesce a scorgere: sosta sull’orlo di tutti i precipizi: cammina tra le voragini, anela l’infinito, perché vuole accoglierlo, raggiungere la sua altezza in una continua e forsennata tensione verso il cielo, desideroso delle stelle.
La malinconia l’avverti al calar della sera, al cadere possente della pioggia, all’approssimarsi del sonno, al ricordo di un amore lontano che non tornerà mai più e che rivedi solo in una vecchia foto.
La malinconia – come dice Borges, poeta argentino – è la tristezza di un’imminenza, di una rivelazione che non si produce, l’attesa di un segreto che dilegua un attimo prima di esser detto. È la consapevolezza amara di non capire che la vita da’ ad ognuno tutto, ma quasi ognuno lo ignora.
Il malinconico vede e vuole la pienezza della vita, il suo primo oro, ma si accontenta solo di assaporarlo.
La malinconia è la consapevolezza di sapere che siamo una virgola nell’infinita punteggiatura dell’universo. È l’universo, è il racconto dell’Essere per ingannare la notte.
“Nelle azzurre sere d’estate, me n’andrò per i sentieri,
punto dalle spighe, calpestando l’erba tenera:
sognando, ne sentirò ai miei piedi la freschezza.
Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.
Non parlerò, non penserò a nulla:
ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
e andrò lontano, molto lontano, come un vagabondo,
attraverso la Natura, – felice come con una donna”
(Rimbaud)
La malinconia vuole la notte, come dice Tabucchi, che è calda, lunga e fa sentire le storie di tutti noi.
“Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v’è al mondo, non c’è al mondo niente
che mi divaghi”,
(Saba)
“Lei sola percepiva i suoni
dei miei silenzi. Temevo
a volte che fuggisse il tempo
ostile mentre parlavamo.
Dopodiché ho smarrito la memoria
ed ora mi ritrovo a parlare
di lei con te, tra spirali di fumo
che velano la nostra commozione.
Ed è questa la parte di me che ritrovo
mutata: il sentimento, per sé informe,
in quest’oggi che è solo di rimpianto”
(Montale)
Questa malinconia, che annichilisce le cose e svuota di contenuto figure e valori, che rende tutto inconsistente e si spinge nel vuoto e nel tedio, che travolge le fondamenta dell’esistenza e precipita così nella perdita di senso della disperazione, questa stessa malinconia è quella dalla quale irrompe il dionisiaco.
Perché il malinconico ha la più profonda relazione con la pienezza dell’esistenza.
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