Letteratura
Macchine come me
In una dimensione ucronica – uno strano e astorico 1982 in cui i Beatles cantano ancora insieme e Alan Turing non ha optato per il suicidio, ma è vivo e progetta Intelligenze Artificiali – si svolge la vita di un anomalo triangolo: Charlie Friend, Miranda e l’androide Adam, macchina polifunzionale, amante di Miranda, poeta, broker, ricercatore, colf.
Macchine come me si muove tra ironia e riflessione etico-filosofica. Ian McEwan senza dubbio ammira la perfezione di androidi strutturati in modo da replicare l’intelligenza e la coscienza umane: semplificano la vita e svolgono noiose incombenze sostituendosi egregiamente alle persone. Tuttavia non tesse l’elogio del transumanesimo e approda a una constatazione: un’Intelligenza Artificiale non potrà mai permettersi il lusso dell’imperfezione, dell’incoerenza, del tormento interiore; è ancorata ad una logica razionalmente codificata, non ammette sfumature tra bene e male, tra vero e falso; è solo il prodotto di chi l’ha programmata; ignora che il confine – umano, solo umano – tra coscienza e inconscio è labile; non riesce a percepire che la vita è sogno, non solo perché non conosce la dimensione onirica, ma anche perché non vede la sottile aura di permeabilità tra illusione e realtà. Un’Intelligenza Artificiale non ha mai conosciuto l’infanzia; ha memoria, ma non ricordi; non ha vissuto la piacevolezza dell’indugio nel gioco; ha imparato a dare un nome ai sentimenti, ma non può, né sa, fare follie; è coerente con i programmi che la compongono e le è preclusa la possibilità di sperimentare la forza di quel caos che invade le sconosciute regioni della psiche e che rende l’uomo – come Cavalcanti e Petrarca hanno magistralmente dimostrato – non un soggetto integro, non individuus, insomma non un essere a una sola dimensione, notoriamente definito dai filosofi “animale razionale”, ma una creatura complicata, cerebrale, divisa tra istanze conviventi e confliggenti. Il punto è questo: preferiamo un mondo di androidi, programmati per applicare una salomonica giustizia con fredda perfezione oppure vogliamo un’esistenza umana, imperfetta, caotica e, forse, proprio per questo, bella, unica, non replicabile nel suo disordine, e, nello stesso tempo, capace di dare vita in modo irripetibile al fascino dell’incompiutezza, quello che rende indimenticabili e sentitamente veri, umani, i Prigioni di Michelangelo o la Nike di Samotracia, le cui ferite lasciate dal tempo sono la traccia della storia?
Adam è il nome dell’androide che Charlie Friend acquista; i modelli femminili chiamati Eve sono andati a ruba e Charlie deve accontentarsi di una macchina progettata al maschile. Adam ha un profondo senso della giustizia: di fronte a crimini e reati, lui chiede a Charlie: che razza di mondo volete? La vendetta o la legge? La scelta è semplice. Adam possiede una logica stringente, rassicurante e antica al tempo stesso: il principio di uguaglianza e non contraddizione. A esclude B. E in effetti lui applica in modo draconiano la legge: denuncia la donna di Charlie, Miranda, che pure Adam ama profondamente. Tuttavia non basta l’amore a frenare il rispetto per la legge. Miranda ha commesso un reato, è rea di falsa testimonianza, ergo va denunciata. In questa logica ferrea non c’è spazio per le intenzioni della donna, per la sua scelta dettata dal bisogno di vendicare la memoria di un’amica morta suicida, disperata, dopo uno stupro. L’algoritmo non consente la discussione sul dramma etico per cui anche un atto legalmente sbagliato può essere moralmente giusto, umanamente auspicabile. Adam non può capire che sono queste aporie e queste contraddizioni a mandare avanti l’esistenza. E di fronte all’enigma che l’essere umano è, anche per se stesso, non potendo sciogliere tutti i nodi emotivi – tra cui pregiudizi e autoinganni – che si aggrovigliano nell’animo umano, Adam mostra tutta la sua debolezza e rivela la fallibilità di chi lo ha programmato, Turing compreso. Anzi quest’ultimo, a un certo punto, considerando i progressivi suicidi degli androidi progettati e immessi sul mercato, ammette con un amaro senso di sconfitta: non conoscendo la nostra mente, come avremmo potuto progettare la loro e aspettare di vederli felici al nostro fianco? Inoltre chiarisce il limite della sua ricerca affermando che il modello di riferimento per la riproduzione dei processi mentali degli androidi per lui sono stati gli scacchi e la matematica: un’ingenuità. La vita non è una scacchiera, non è una partita con pedine mosse da altri, non presenta caselle bianche o nere: è fatta di percorsi tortuosi, labirintici, di decisioni complesse su cui incidono variabili innumerevoli, non ultimi i fattori emotivi e psicologici, imprevedibili nelle loro manifestazioni.
Dovendo costruire macchine perfette da inserire nel mondo delle relazioni, Turing le ha dotate di alcune regole di vita a cui attenersi: Adam è programmato per la benevolenza, la verità e l’onestà. Che non bisogna mentire è una regola aurea, raccomandata nel Libro dei Proverbi, dalla notte dei tempi. Ma Turing si rende conto che il mondo pullula di menzogne innocue, per non dire preziose. E si sfoga con Charlie: chi scriverà l’algoritmo della bugia generosa che risparmia l’imbarazzo a un amico? (…) Ancora non sappiamo come insegnare a mentire a una macchina. E che dire della vendetta? Secondo lei è ammissibile, qualche volta, quando si ama la persona che la reclama. Ma per il suo Adam, no, non lo è mai.
Il romanzo di McEwan lancia un messaggio chiaro, di cui la società scientista e tecnocentrata in cui viviamo, dovrebbe tener conto. La tensione prometeica dell’uomo ha un limite: l’irriproducibilità della dimensione umana nelle sue vorticose inquietudini, nei suoi slanci di fede, nei suoi labirinti, nelle sue contraddizioni, nelle oscillazioni continue della volontà e nei dissidi interiori che muovono l’esistenza e che Ovidio acutamente sintetizzava: video meliora proboque, deteriora sequor (“vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio”). È così che si mente per amore, si inganna per altruismo, si tradisce per affetto: il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce, diceva Pascal. Ma tutto questo Adam non lo sa.
Ian McEwan, Macchine come me, Einaudi, 2019
Cfr.: https://laprofonditadellecose.blogspot.com/2020/01/macchine-come-me.html
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