Letteratura
“L’ultima innocenza” di Emiliano Morreale
Emiliano Morreale – L’ultima innocenza – Sellerio 2023
A lettura conclusa, duplice mi è apparso il possibile accesso a questo libro di Emiliano Morreale. Da un lato seguendo semplicemente la lettura lineare e consecutiva del catalogo di biografie di uomini e donne che hanno trafficato, a vario titolo, durante la propria esistenza con quella magnifica ossessione che è stato il Cinema dalla sua epoca d’oro ad oggi, dal muto al porno. La lista dei nomi e delle pellicole interessate dal resoconto è varia e talora variopinta – dal figlio del mafioso con la fissa del cinema, alla diva del cinema muto, al regista e agli attori dei primi porno -, e non è redatta avuto riguardo alla risonanza di fama dei biografati (si tratta di autori se non di nicchia, certo non famosissimi), ma secondo l’incidenza che hanno avuto nell’immaginario e nella sensibilità dell’autore, e per quel che riguarda gli stranieri, dal fatto che abbiano avuto qualche contatto con la nostra Italia (o si dovrebbe dire “Nazione” secondo l’attuale glossario governativo?).
La rassegna inizia con la vicenda di Giuseppe Greco figlio di quel noto mafioso, Michele, detto il “papa”, che ebbe l’uzzolo della regia cinematografica, trastullo che però lo tenne fuori dal crimine. Prosegue con l’avventurosa vita di Micha∂ Waszyński, regista ebreo polacco, autore di una pellicola mitica, “Il Dybbuk”, il quale concluse la sua esistenza in Italia, da nobile principe per titolo acquisito da matrimonio, girando pellicole con Anna Magnani e Vittorio De Sica e diventando uno dei protagonisti della Hollywood sul Tevere (Cinecittà) – e che personalmente ricordo con emozione, da piccolo amatore del cinema-cinema e collezionista in un collegio fiorentino dei cataloghi della “SanPaoloFilm”, come il regista di un “peplum” per me favoloso, “La caduta dell’Impero romano”, che però qui apprendo fu un clamoroso flop e pose fine alla sua carriera. È quindi la volta di Douglas Sirk, il regista, tra gli altri, del film “La magnifica ossessione” con Rock Hudson e Jane Wyman (di cui il fotogramma di copertina) nato in Germania con altro nome, Detlef Sierck, la cui storia intrecciata a quella di registi tedeschi nazisti quali Veit Harlan, l’autore della pellicola antisemita voluta da Goebbels “Süss l’ebreo” e di suo figlio Thomas Harlan, rivoluzionario di sinistra in Italia, occupa la parte centrale del libro. Segue il medaglione di Alberto Grifi e del suo film-cult in ambito romano “Anna”, quindi per connessioni interne, che seguono un po’ la storia del cinema di quegli anni in cui le sale cinematografiche accompagnano il declino dell’età dell’oro della Settima Arte e, digradando dagli spaghetti western, alle pellicole di kung fu, approdano al cinema porno.
Il libro si chiude, vera pièce de résistance, con la struggente storia di Dorothy Gibson, starlet del cinema muto, naufraga sopravvissuta del Titanic, frequentatrice del Bel Mondo europeo tra le due guerre e finita in galera insieme a Mike Bongiorno a San Vittore, a Milano, carcere da cui fugge in compagnia di… Indro Montanelli. La «storia perfetta», artistica e umana di Dorothy, intensa, raccontata con pathos da vero innamorato («sentimentalismo postumo», leggo), senza riserve e pudori da Morreale, irretisce e sorprende, e ci vuol poco, anche vecchie canaglie sentimentali come chi scrive che chissà quante volte si è innamorato di attricette di celluloide.
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Altro possibile accesso alla lettura del libro, dicevo in esordio, è seguire l’itinerario biografico dell’autore, che dismessi gli abiti del saggista, porge il racconto in soggettiva, e cioè dal punto di vista del suo io precipuo. E qui si aprono gli scorci biografici nella Palermo di Ciprì e Maresco (nel libro indicati sobriamente come Franco e Daniele) e del loro periferico cinema d’essai “Lubitsch”, o le allusioni al regista concittadino famoso (Peppuccio Tornatore), per dire quanto intensa è la saturazione cinematografica di certe biografie, ma soprattutto, per chi legge, catturare uno sguardo disilluso e con una certa piega amara di cui la riflessione come quella che segue ci dà la temperatura morale che attinge dopotutto a quella «Grande Illusione» che è il cinema: «Tutti noi abbigliamo una controfigura che mandiamo nel mondo, e che è il nostro unico essere. Pochi temerari però (esteti, narcisi, psicotici) osano farsi fino in fondo creatori di sé».
O anche questa meditazione di pregio: «I maschi della mia età erano preda di un immobile delirio: perfino le menti migliori della mia generazione, avendo placidamente rinunciato a immaginare qualcosa fuori di sé, erano evirate e tranquille o scivolavano nella fobia. Alcuni si erano messi a scrivere pensose considerazioni, diari, per riempire il tempo e compensare l’insignificanza. Altri ci eravamo avviluppati nel privato leccandoci patetiche ferite, ulissidi che bramavano il ritorno all’aperitivo, Swann da precariato intellettuale, Werther in andropausa. Senza neanche la protervia da reduci che era stata della generazione dei nostri padri, chiusi in casa stavamo semplicemente diventando ciò che già eravamo».
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Chi sa cos’è stata davvero, ancora qualche decennio fa, la dolcezza del vivere quando si varcava la doppia barriera dei tendoni di spesso velluto nelle sale di una volta e si veniva immessi dopo il freddo smarrimento di questi vestiboli, spesso a pellicola appena iniziata, in quella sinestesia di musiche, luci, colori, immagini di figure gigantesche proiettate su schermi immensi dei cinemascope di una volta, sarebbe indotto a pensare che è gioco fin troppo facile attingere all’entusiasmo e all’eccitazione cerebrale delle vecchie pellicole, e proprio questo potrebbe essere il maggior rischio estetico che corre chi come l’autore di questo testo poggia la propria scrittura sul fascino di quel grande cinema di una volta, già anche singolare avventura individuale dentro un potentissimo rito collettivo, oggi regredito al consumo privato e ononastico delle piattaforme. E qui giunti si balza dalla sedia del passivo lettore con ansia di saltare al collo dell’autore per un abbraccio fraterno quando si legge: «Davanti alle serie televisive, che parevano l’unico conforto di più generazioni, mi saliva un torpore istantaneo, una nausea da ubriaco». Ma Morreale non corre quel rischio che si diceva, e non perde la sfida che comunque si pone di tangere il sublime, grazie a una prosa ad alto amperaggio stilistico, sorvegliata da una certa amara ironia che nasce dalla maturità dello sguardo. Che non è freddamente accademico (egli ha lavorato con diversi ruoli nel cinema, da custode di cineteche a docente) ma intinto, mi è parso, in un’aria crepuscolare di chi ne ha viste tante non solo nello schermo.
Un libro che suggerisco vivamente a chi ama ancora il cinema e la scrittura di qualità.
Pubblicato anche sulla pagina Facebook urly.it/3r_wq
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