Letteratura
Lucrezio, il poeta dell’infinito e della conoscenza, tradotto da Milo De Angelis
Il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, il grande poeta latino vissuto nel I° secolo a.C., è un gesto letterario vasto, profondo e coraggioso, un poema al tempo stesso multiforme e musicale, didascalico e sapienziale. L’opera, raccolta in sei libri, è stata concepita e scritta in un’epoca aurea e luminosa, per espansione politica e militare e capacità di assimilazione culturale, della Repubblica romana, ormai prossima a diventare Impero. Nel testo di Lucrezio, tradotto e curato per le edizioni di Lo Specchio Mondadori da Milo De Angelis, uno dei maggiori poeti contemporanei italiani, coesistono, con una potenza che dopo oltre duemila anni riesce ancora a scuoterci, a sorprenderci, tensione lirica e densità di contenuti. E non si può non rilevare come a ridare voce al poeta antico più prossimo all’idea dell’infinito e del limite dell’esperienza sia il poeta italiano che più di ogni altro ha cercato la “parola irripetibile”, verticale, “alla quale tutti i poeti sono vincolati in maniera assoluta”, come lui stesso ha avuto modo di precisare. De Angelis si affida a un verso ampio, capace di avvicinarci al ritmo e al suono dell’esametro latino e, rispettando il significato letterale, supera le insidie di una traduzione appesantita da una lingua artefatta e inutilmente classicheggiante e ci restituisce la nitidezza visionaria e la forza lirica del poema lucreziano. Lucrezio, consapevole della sua singolarità, della sua unicità nel panorama letterario latino, non ha paura di provare ad abbracciare con la sua poesia tutta la realtà: dalla composizione della materia all’origine delle sensazioni, dalle cause dei fenomeni atmosferici e delle malattie alla storia dell’umanità e ai pericoli che si nascondono nell’amore e nelle passioni e che l’atarassia epicurea, la serenità propria dell’uomo saggio, permette di guardare con distacco. E così elude in partenza ogni possibile sottrazione e accetta, mentre scrive, di farsi guidare dal desiderio di conoscenza. Forse soltanto Quinto Ennio, che gli antichi consideravano il padre della letteratura latina, con il suo respiro tragico, i suoi echi omerici e la sua accettazione dichiarata del confronto con il mondo greco mostra alcune affinità, o somiglianze, con Lucrezio che, non a caso, nel primo libro del De rerum natura ne riconosce il valore poetico:
come ha cantato il nostro Ennio, che per primo riportò
dal ridente Elicona una ghirlanda di foglie eterne
perchè splendesse gloriosa tra le popolazioni italiche.
A Roma, come spiega De Angelis nella sua prefazione, “Lucrezio è un uomo isolato, un uomo fuori dalle dispute culturali del suo tempo, lontano dai circoli letterari e dall’eleganza dei neoteroi. Non parla con i poeti contemporanei, non entra nei luoghi mondani del “dibattito””. E, ancora: “Non si rivolge ai vicini di casa, ma agli antichi, ai grandi sapienti greci che si sono interrogati perì physeos: sulla natura delle cose, appunto. Parla con Eraclito, Anassagora, Empedocle, Epicuro, parla con coloro che sono stati la sorgente del pensiero e hanno lanciato una staffetta poetica lungo i secoli, hanno fatto viaggiare un testimone, un bastoncino di legno che passa da una mano all’altra, da una mente all’altra”.
Ivano Dionigi, professore emerito di letteratura latina all’università di Bologna, richiamando una definizione di Vittorio Alfieri, afferma che Lucrezio, come Dante Alighieri, è un poeta “sprotetto”, ovvero, in contrapposizione con la visione politica e culturale dominante. Sebbene molti suoi contemporanei illustri, a partire da Cicerone, avessero letto e apprezzato la qualità della scrittura e la forza dello stile del De rerum natura, la concezione del mondo che emergeva dal poema, epicurea e democritea, divergente da quella degli dei dell’Olimpo su cui ancora si fondava la religione romana, non poteva che fare di Lucrezio un emarginato. Una creazione dove non è previsto l’intervento di una divinità e dove l’anima è mortale come il corpo, una realtà sensibile e sopra-sensibile composta da micro-particelle, da atomi in aggregazione spontanea e casuale, fatto salvo un clinamen, una piccola deviazione capace di ammettere e di includere la volontà individuale, vale a dire la possibilità di scelta e di libero arbitrio degli uomini, non poteva essere accolta nella Roma in cui viveva Lucrezio. E, del resto, Lucrezio e la sua opera sono stati fatti oggetto di un’esclusione, più che di una semplice marginalizzazione letteraria, anche dopo la caduta dell’Impero romano e durante l’epoca medievale, poiché la sua rappresentazione atomistica della realtà era parimenti, e per ragioni tutto sommato analoghe, in contrasto con la teologia e con la filosofia del Cristianesimo. Solo nel 1417, in epoca rinascimentale, il poema, che ormai sembrava perduto per sempre, può finalmente uscire da secoli e secoli di oblio, grazie al ritrovamento da parte dell’umanista toscano Poggio Bracciolini di una copia nell’abbazia di San Gallo, vicino al lago di Costanza.
Riemerso dall’invisibilità in cui era stato confinato, e riammesso nel campo della letteratura, il De rerum natura ha potuto così influenzare e contagiare moltissimi scrittori, “lasciando una traccia imponente lungo i secoli”, come dice De Angelis. Tra i suoi estimatori e lettori troviamo Poliziano e Tasso, Giordano Bruno e Machiavelli, Leonardo da Vinci e Galileo Galilei, Vico, Hobbes, Botticelli, Veronese, Tiziano e Velasquez. E, ancora, nell’Ottocento, Shelley, Foscolo e Leopardi. E, tra gli scrittori del Novecento, Pavese, Luzi, Camus, Eliot, “fino ad alcuni poeti del nostro tempo su cui Lucrezio ha lasciato un segno indelebile”, precisa sempre De Angelis.
È evidente e risaputa la rielaborazione da parte di Giacomo Leopardi dello sguardo letterario del poeta latino e della sua concezione della natura. Tuttavia, tra i due, che scrivono separati da quasi diciannove secoli, sembra esserci una differenza sostanziale. Leopardi vede una natura non governata dal divino, indifferente alle sorti del genere umano, e altresì nemica, e al tempo stesso non ha fiducia nel progresso tecnico-scientifico. L’unica possibiltà, se non di salvezza, di resistenza per gli esseri umani, secondo il poeta di Recanati, è quella di formare una “social catena”, ovvero, di trovare protezione in una rete di affetti, di consolazione e di vicinanza con i loro simili. La sua idea del mondo, sia pure notoriamente critica della tendenza a mettere l’uomo al centro dell’universo, che si può riscontrare sia nelle visioni religiose sia, per altri versi, in chi ripone ogni speranza nel progresso scientifico, almeno nel modo di reagire alla violenza distruttrice della natura, tradisce, in fondo, essendo oltremodo focalizzata sulle sofferenze umane, una componente, o una tensione, antropocentrica. Lucrezio, invece, è completamente rivolto verso la conoscenza delle cose. Questo è il suo interesse principale. Anche nelle sue rappresentazioni più tragiche non c’è la lente del giudizio, né tantomeno la ricerca timorosa di un rifugio, di un modo per difendersi dal corso naturale delle cose, dal destino del mondo. E così se da un lato rileva la parte di dissoluzione che attraversa lo spazio e il tempo, la tensione verso l’annientamento che riguarda l’epilogo di ogni realtà, di ogni azione, di ogni creazione, dall’altro è pervaso da una meraviglia senza fine per le innumerevoli possibilità di evoluzione e di esistenza dell’universo, come testimoniano, insieme a molti altri, i due passaggi che riportiamo, tratti rispettivamente dai libri quarto e quinto dell’opera:
Una pozzanghera d’acqua alta al massimo un dito
che si trova tra le pietre di una strada lastricata
fa precipitare il nostro sguardo in un vero e proprio baratro
profondo come l’abisso che separa la terra dal firmamento
e sembra di guardare dall’alto le nuvole e vedere
i corpi celesti prodigiosamente immersi sottoterra.
Io credo che davvero il mondo stia vivendo la sua giovinezza
e la natura del cielo non abbia avuto origine in tempi remoti.
Ancora adesso alcune arti si stanno perfezionando, ancora oggi
non smettono di progredire: da poco tempo sono stati aggiunti
nuovi attrezzi alle navi e i musicisti hanno creato nuove melodie.
Anche questa ricerca sulla natura delle cose in fondo è recente
e io stesso mi trovo a essere il primo tra i nostri poeti
che è stato in grado di tradurla nella lingua dei nostri padri.
Nell’ampiezza di respiro e nell’ambizione del De rerum natura si percepisce sia un lavoro, o una specie di missione, che guarda al futuro, vale a dire l’obiettivo di portare la luce dove c’è l’oscurità e di regalare ai lettori una connessione nuova e più autentica con la realtà, sia la capacità di far riecheggiare in un’epoca in cui la cultura e i codici di espressione erano già assai evoluti, stratificati e permeati da una razionalità forse non troppo dissimile da quella contemporanea frammenti di letteratura precedenti che verosimilmente hanno ancora a che fare con il nostro modo di pensare, oltre ad essere parti fondamentali del nostro patrimonio intellettuale. Per esempio, si può avvertire un analogo impulso a raccontare il cosmo intero nella descrizione della rappresentazione celeste scolpita da Efesto sullo scudo di Achille, che si trova nel canto diciottesimo dell’Iliade, di diversi secoli anteriore rispetto al poema lucreziano:
Vi scolpì la terra ed il cielo ed il mare,
il sole che mai non si smorza, la luna nel pieno splendore,
e tutte le costellazioni, di cui s’incorona il cielo,
le Pleiadi, le Iadi, la forza d’Orione
e l’Orsa, detta Carro per soprannome,
che gira su se stessa guardando Orione,
ed è l’unica a non immergersi nelle acque d’Oceano.
E anche il Libro dei morti egizio, o meglio il Libro dell’uscita alla luce, composto a partire dal XVII° secolo a.C. da diversi sacerdoti, al di là di un modo di raccontare e di usare il linguaggio inevitabilmente lontano dal nostro, nonché difficile da tradurre, in certe sue raffigurazioni vibranti di Ra, del dio del sole, vuole squadernare il reale e comunicare le dinamiche materiali e spirituali del mondo:
Ra sorge nel suo orizzonte, la sua Enneade l’accompagna quando il dio esce dalla sua dimora segreta. Un tremito (di reverenza) si impadronisce dell’orizzonte orientale del cielo alla voce di Nut, che sgombra le strade per Ra, al cospetto del grande che compie il suo giro (e dice): “Alzati, Ra, per inghiottire i venti, tu che inghiotti il vento del nord, che inghiotti il midollo spinale, che prendi in trappola il giorno, che respiri Maat, ripartisci il tuo seguito e voghi in barca verso il cielo inferiore! I grandi si agitano alla tua voce: tu rimetti in ordine le tue ossa, raduni le tue membra, volgi il viso verso il bell’Occidente, ritorni ogni giorno ringiovanito perchè sei questa immagine d’oro sotto le fronde di Itenu e il cielo è pieno di fremiti quando ritorni tutto ringiovanito ogni giorno. L’orizzonte giubila e si fanno acclamazioni fra i tuoi cordami”.
Di sicuro, come nessun altro tra i grandi dell’antichità, Lucrezio continuerà a essere un maestro di scrittura e di visione, da leggere e rileggere, per molti poeti e scrittori contemporanei e dei tempi che verranno. Per quali, in particolare? Per quelli che, come lui, hanno “il senso del nulla e insieme il senso dell’infinito. Lucrezio li vive entrambi fino all’estremo”, suggerisce De Angelis. E, probabilmente, anche per quelli per cui la letteratura, campo dell’invenzione e dell’immaginazione, è una sfida che non ammette finzioni, posture strumentali o vie di fuga e dove dire e conoscere hanno lo stesso significato, o quasi.
Foto di copertina di Dino Ignani.
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