Calcio

Il cuore di Sócrates: “Il nostro popolo non può perdere”

13 Febbraio 2016

Pubblichiamo in collaborazione con l’editore 66THA2ND un estratto da Un giorno triste così felice. Sócrates viaggio nella vita di un rivoluzionario di Lorenzo Iervolino

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Un’ode all’autogestione chiamata Democrazia corinthiana. Lorenzo Iervolino ha ricostruito la voce di Sócrates, «un uomo dal cuore grande come una sala da ballo», visitando le città in cui è cresciuto e si è affermato, parlando con i suoi familiari, gli ex compagni di squadra e gli amici di una vita. Senza trascurare l’amara esperienza italiana, ripercorsa attraverso le testimonianze di coloro che a Firenze lo hanno amato ma anche criticato. Un viaggio tra invenzione letteraria e reportage narrativo alla scoperta di un campione che amava la birra al pari della conoscenza, ma odiava ogni forma di gerarchia. E che non ha mai rinunciato a concepire la vita come un inatteso e seducente colpo di tacco.

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Il giocatore di calcio non è altro che un rappresentante del popolo.
Per questo ho sempre difeso punti di vista coerenti con quel che il mio popolo voleva.
«Il nostro popolo non può perdere. La sua voce, la nostra voce, sarà ascoltata!».
Sócrates prende fiato e si volta verso destra; anche Wladimir, come lui, ha un microfono in mano. Prima che il Doutor riprenda a parlare, è il terzino a dire, con convinzione e allegria: «Il futuro che vogliamo costruire inizia oggi». Davanti a loro migliaia di persone esultano e applaudono. Praça da Sé ospita nuovamente la gente di San Paolo, come già accaduto tre mesi prima, il 25 gennaio 1984. E anche questa volta, Sócrates e la Democrazia corinthiana sono presenti. Il Doutor prosegue il discorso del compagno di squadra: «Da oggi il nostro paese cambia e ognuno dovrà dare il suo contributo». Indossa una maglietta gialla con una piccola fila di bottoncini che scendono dal collo, Wladimir una camicia con le maniche risvoltate, bianca con disegni neri, lo sguardo deciso dietro i soliti occhialini tondi. Alla fine delle loro parole, entrambi alzano il pugno chiuso. La risposta è un’altra ovazione.

«Il Doutor Sócrates, Wladimir e il Corinthians!» interviene in chiusura Osmar Santos, ringraziandoli. In quel momento Casagrande e Juninho, anche loro in giallo, e Adílson Monteiro Alves fanno un passo in avanti e si affiancano a loro due. Tenendosi tutti per mano alzano le braccia verso la folla in delirio.

«Bene, nel frattempo ci comunicano che le consultazioni stanno andando avanti, e noi siamo pronti per l’inizio delle votazioni» riprende la parola Osmar Santos, indicando l’enorme tabellone di legno dove sono stati appuntati i nomi dei parlamentari chiamati a votare alla Camera l’emenda Dante de Oliveira per il ripristino delle elezioni presidenziali dirette. «Aspettiamo che ci arrivino in- formazioni, intanto vorrei dare la parola a Juca Kfouri».

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Come fosse una telecronaca sportiva, il commentatore e il giornalista si apprestano a dare notizia dei risultati in arrivo da Brasilia. Sopra alle «formazioni» parlamentari campeggia una grande scritta: o placar das diretas, «il risultato delle dirette», che allude al gioco di parole tra la rivista «Placar», in portoghese «risultato», e le elezioni dirette. La censura del regime, operata attraverso il suo organo repressivo, la Delegacia nacional de telecomunicãçoes (Dentel), non ha permesso l’ingresso dei giornalisti durante i lavori del- l’assemblea dei deputati. La gente, però, si è saputa organizzare.

«Ecco,» interviene Juca Kfouri al microfono «ci hanno appena comunicato che sono iniziate le votazioni. Aspettiamo… ci siamo: Iram Saraiva, del Pmdb, ha votato sì». Esultanza. «Raul Belém, del Pmdb, ha votato sì…».

Dalla Camera dei deputati, la voce di una «talpa» viaggia attraverso i cavi telefonici e arriva nelle piazze della città. Informa il po- polo ed elude la censura. Sócrates ascolta i nomi dei deputati e l’esito delle prime votazioni. Ha un sorriso nervoso. Cammina lungo il palco e cerca di vedere quello che succede, come si incasellano le soffiate che arrivano dalla capitale. Al pari degli altri calciatori, degli artisti e degli attori che da un anno parlano nelle piazze del paese, il Doutor sa che oggi, 25 aprile 1984, si scrive la Storia. E, nel suo caso, anche qualcosa in più. Nove giorni prima, infatti, ha parlato davanti a migliaia e migliaia di persone riunitesi in piazza Anhangabaú per rappresentare anche chi, in nome della libertà, dal 1964 a oggi è stato torturato, fatto sparire o ammazzato per strada.

Nel pomeriggio di quel 16 aprile la polizia militare aveva preferito rimanere nell’ombra, controllando la manifestazione a distanza e dichiarando eccessivi i toni enfatici dei sostenitori della Diretas Já: non ci sono affatto due milioni di presenti, «solo un milione e cinquecentomila!». Era stato lo stesso Osmar Santos, soprannominato per l’occasione «la voce delle elezioni dirette», a dare la parola a Sócrates, e al suo saluto la massa umana aveva risposto con un tumulto di allegria. «Siamo qui» aveva annunciato Sócrates al microfono «per riprenderci la libertà». Sa bene che dall’inizio di aprile sono scesi in piazza in decine di milioni. Che la pressione sul parlamento è ormai enorme. Che il desiderio di democrazia è lì, è reale, e merita una promessa solenne: «E se il 25 aprile vinciamo questa votazione, io rimango in Brasile. Non lascerò il nostro paese!».

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A partire dalla vittoria nel campionato paulista del 1983, le voci sulle offerte milionarie che gli sono giunte dall’Italia sono di dominio pubblico, è stato impossibile arginarle e, per il Doutor, davvero impegnativo rifiutarle. Ma Sócrates è conscio di quale sia la gerarchia di valori nella sua vita, e quando certi giornalisti gli fanno notare che sta perdendo un treno non solo molto prezioso, ma anche molto veloce, lui risponde: «Il mio posto è qui in Brasile, accanto alla lotta della mia gente».

Con le parole pronunciate davanti alla folla di piazza Anhangabaú quel 16 aprile ha posto di nuovo sul terreno dello scontro il legame profondo tra calcio e politica brasiliana, e ancora una volta ha messo in gioco la sua immagine pubblica, riversando sui parlamentari la responsabilità di costringere all’addio il capitano della Seleção, uno degli uomini più popolari e amati del paese. Sul palco, dopo di lui, l’attrice Christiane Torloni, ribattezzata «la musa della Diretas», ha fatto sentire la sua voce e mostrato la sua bellezza indomabile.

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Tutta la campagna Diretas Já ha assunto la forma di un gesto artistico universale e poetico, dilagante e popolare. Vinícius de Moraes, Chico Buarque e l’incantevole Fafá de Belém hanno accompagnato le manifestazioni di Rio, San Paolo e Bahia con le loro parole, i loro corpi e le loro canzoni. Tanto che è a loro che il regime ha attribuito il merito del successo di pubblico ai comizi, sostenendo che «le persone vanno lì a sentire la famosa musica brasiliana, non per fare politica». Ma mai come nelle ultime settimane le due cose sono sembrate inscindibili. Mário Lago, Ruth Escobar e Beth Carvalho, Valter Franco e tanti altri artisti sono saliti sul palco accanto ai politici dei partiti di opposizione e sono scesi in strada insieme ai cittadini, dando forma a una voce, per la prima volta unita e potente, in grado di indicare un obiettivo comune: fare pressione sui membri della Camera che voteranno il 25 aprile.

«Ora vorrei tutti qui per cantare insieme». Osmar Santos aveva richiamato l’attenzione dei presenti. «E direi che dovremmo cantare la canzone che più ci appartiene: l’inno nazionale brasiliano».

Il 25 gennaio erano stati in duecentocinquantamila a San Paolo, poi trecentomila a Belo Horizonte, poi un milione a Rio de Janeiro e, solo pochi giorni prima di quel 16 aprile, mezzo milione tra Porto Alegre e Goiânia. Il 16 aprile si sono ritrovati di nuovo nella capitale paulista, di nuovo accompagnati da quel canto, patriottico e ribelle.
Finché è arrivato il 25 aprile 1984, il giorno delle votazioni.

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