Letteratura
Lo slancio verso la pluralità del reale nella poesia di Roberto Minardi
La forma, in ogni espressione artistica, è già il contenuto dell’opera, o almeno qualcosa che dice molto dell’idea che l’autore intende esprimere e comunicare. E il concetto in poesia, se possibile, ha ancora più forza. Molti ritengono che la poesia sia, o possa essere, anche uno strumento di conoscenza. O, forse meglio, una specie di medium capace di mettere in relazione con alcuni aspetti della realtà. E ancora una forma capace di richiamare porzioni di esperienza.
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Il libro di Roberto Minardi Concerto per l’inizio del secolo, fin dal titolo, concerto, appunto, e per l’incipit di un arco tempo lungo, riconduce a un’idea di coralità, suggerisce che il reale, il mondo, la vita abbiano a che fare con una pluralità di influenze e di stimoli. Ogni esperienza, anche la più apparentemente piccola, marginale, casuale o quotidiana sembra poter essere ricca, complessa e stratificata.
Tra i numerosi testi del libro che trasmettono questa impressione, si legga:
Testimonianza del rettilineo
prendo l’autobus con mio figlio e i derelitti
due anziani con poco cervello e un bel sorriso
la signora, quantomeno, lui ha i capelli incollati
e l’odore acre viene dal loro look, dall’intimo loro
prendo l’autobus con mio figlio e in fondo
un giovane in tuta parla al cellulare a voce alta
riporta l’aneddoto dell’ufficiale arrogante
ripete la mia ragazza la mia ragazza la mia ragazza
credo provi un certo dovere a essere scurrile
prendo l’autobus con i graffi, le rughe, il rosso
delle facce di passeggeri innocui e derelitti
prendo l’autobus con il cane nella gabbia da trasporto
cane che dalla retina annusa il passeggino di mio figlio
sarà il formaggio a cubetti di cui è pregno il cestino
o l’odore che non alita ma tiene insieme l’universo
l’odore che tiene in bilico il pianeta Terra
mia moglie dice a nostro figlio che manca poco
Il registro oggettivo, ovvero insieme partecipe e analitico, che attraversa la poesia e l’espediente dell’elencazione-sovrapposizione di immagini e situazioni lasciano intendere che il testo voglia essere, o possa essere, una semplice esemplificazione, o una sintesi, di qualcosa di più ampio e articolato. E gli ultimi versi (“o l’odore che non alita ma tiene insieme l’universo/ l’odore che tiene in bilico il pianeta Terra/ mia moglie dice a nostro figlio che manca poco”), l’uso della parola “universo” tolgono ogni dubbio. Ogni dettaglio, ogni frammento del tutto contiene un universo, un cosmo, poco importa se micro o macro, di avventure, di possibilità.
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Nella sua ampia prefazione Davide Castiglione parla di Concerto per l’inizio del secolo come di “un’opera di slancio emancipatorio, pietas per il vivente e sicura perizia artigianale”. E ancora: “una “musica robusta”; una musica che si lascia alle spalle la circospezione novecentesca, dall’abbassamento ironico-dimesso del “quartetto di cannucce” di Montale (La mia musa) alla musica delle “tende che sbattono sui pali” del prigioniero Sereni (Non sa più nulla, è alto sulle ali)”. Il libro di Minardi sembra voler restituire ai suoi lettori quella meraviglia per l’esistente, quel desiderio, misto a stupore, per la conoscenza che lungo i secoli attraversa la storia della filosofia, della scienza e della poesia, accomunando, sia pure con prospettive e forme diverse, insieme ad altri, Dante, Kant e Einstein e di cui già Aristotele ci dà conto nella sua Metafisica: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia”.
E se libro in alcuni passaggi può correre il rischio di cedere a un eccesso di retorica o tradisce delle sovrabbondanze stilistiche e di contenuto, si tratta di una conseguenza, difficilmente evitabile, della direzione che anima l’opera, di una specie di missione, se così si può dire, a dire tutto, o almeno molto, a far risuonare nei versi un mondo il più possibile composito, a tenere gli accenti del testo sempre in battere.
L’esigenza di connettere particolare e universale fa pensare anche a questo passaggio del breve saggio di Walter Benjamin, intitolato Al Planetario, contenuto in Strada a senso unico: “Il contatto con il mondo classico col cosmo si compiva altrimenti: nell’ebbrezza (Rausch). E infatti è ebbrezza l’esperienza che sola ci assicura dell’infinitamente vicino e dell’infinitamente lontano, e mai dell’uno senza l’altro”.
Nei versi finali di Materia per aperture alari, il poemetto con cui si chiude il libro, se non si parla di esperienza dell’ebbrezza, o di estasi, si chiama in causa la “fede nello slancio”:
Era il comico più grande della terra; occhi lessi, due gocce.
Non conoscendo l’inglese, taceva, indicava la fine
colla mano, aggiungeva sorrisi che erano vera cortesia.
L’imbranataggine è il ritmo più superbo e gli apparteneva,
era un uomo dalla giacca consunta, elegante, ci commosse…
Ancora bambino dice “sono felice che è il tuo compleanno”
e ci fa ridere, ci fa scoprire che l’amore è un punto esatto.
Stando agli evangelisti il Cristo Messia non rise mai, e io
giunto alla cima capii che ero voi: dal bastardino al masso,
la nespola ammaccata, il fil di ferro, la donnola frenetica.
E ridiscesi. Nessuno abbatterà la fede nello slancio,
le piume vellutate, il trillo che proviene dalle barre.
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