Letteratura
L’irruzione della violenza nel romanzo di Fabio Bacà. Finalisti Strega
Fabio Bacà – Nova– Adelphi Milano 2021
Ogni romanzo ha un tema portante (parla about qualcosa); si appoggia su una storia che dovrebbe veicolare quell’about, il suo significato intimo; e si avvale di mezzi espressivi (tecnica, lingua, stile ecc) per estrinsecare sia la storia che il tema-significato. Sta qui tutto l’arcano di qualsiasi romanzo, che Paul Valéry si rifiutava di scrivere perché fatalmente c’è sempre una Marchesa che esce alle cinque. Ma una volta che la Marchesa è uscita c’è la fatica di costruirle un plot attorno, con le sue necessità imperative ed inderogabili: gli eventi (i fatti da incastrare crono e logicamente) e gli esistenti, altrimenti detti personaggi, che anche loro escono (non sempre alle cinque), si scontrano, dicono, rispondono, fatalmente annuiscono, amano, ammazzano ecc. E questo plot questa architettura narrativa deve avere una sua costruzione attrattiva per il lettore medio. E ci deve essere pertanto un momento di accumulo/costruzione, uno di maturazione, uno di culmine/climax – che qui, in barba allo spoiler dico che è un colossale patatrac durante il concerto dei Pet Shop Boys del 31 luglio (2017) a Lucca – e uno di scioglimento infine.
Ora l’about di questo Nova è esplicitamente posto dall’autore in una nota nell’avantesto: è il tema della violenza in questo basso mondo. Vedremo se e in che misura questo tema agisce nella, ed è agito dalla, storia.
Che è presto detta. Al centro è una famiglia borghese di Lucca. Lui Davide Ricci, neurochirurgo quarantenne; la moglie Barbara, logopedista e vegana inflessibile; il figlio Tommaso, liceale e immerso nei processi di socializzazione della sua età (spinelli, gruppi rock, primi turbamenti sessuali ecc) cui aggiunge la sua passione particolare per l’astronomia. Vicino di casa è Massimo Lecci (e il figlio Giovanni tornato dall’Australia) che gestisce un esercizio commerciale molto rumoroso anche nelle ore notturne, determinando un conflitto aspro col medico turnista che non può riposare e che gli intenta causa.
Il nostro romanzo si apre con un prologo, a mo’ di impaesamento tematico, con il fatto di cronaca dell’immigrato Kabobo che nella Milano di qualche anno fa colpì a morte con un piccone alcuni passanti. Ora scrive Bacà che, prima di questi assurdi omicidi, Kabobo aveva aggredito altre persone, le quali, ecco il punto, non denunciarono i fatti. Perché, si chiede l’autore? E qui si innesca quella sorta di demonstratio narrativa sui comportamenti inibenti l’azione. Quali le spiegazioni? «L’egoismo epidemico, l’autismo emozionale, il crollo di valori come civismo, empatia e solidarietà». O qualcos’altro avanza l’autore? Per il momento è meglio sospendere le altre ipotesi esplicative.
Questo tratto tematico a me ha ricordato il film Mon oncle d’Amerique di Alain Résnais (1980) che metteva in scena le teorie del neurochirurgo francese, Henri Laborit. Secondo Elogio della Fuga di Laborit infatti, l’uomo, quando aggredito, viene portato alle seguenti reazioni: fuga, inibizione o somatizzazione, aggressività. La seconda reazione è quella di Davide allorché in un ristorante la moglie è molestata da un energumeno ed egli, come i primi assaliti da Kabobo, non reagisce, resta come paralizzato, inibito. Interviene invece decisamente un avventore del locale che è destinato ad avere un ruolo importante nel romanzo, Diego, che poi si scoprirà essere una sorta di monaco zen (oh la magia del romanzo!), il quale appende l’aggressore a un chiodo, reagendo cioè con la terza ipotesi di Laborit, alla violenza con la violenza.
Ma l’about s’allarga cammin facendo in verità. Non è più la reazione degli aggrediti alla violenza, ma il tema, sommamente temerario è il caso di dire, diventa quello della violenza in sé. Roba da far tremare i polsi ai filosofi più profondi ma che non fa arretrare il nostro autore, che approda a conclusioni del tipo “quest’atomo opaco del male” del poeta Pascoli. Leggiamo:
«Dio ha creato il mondo con la violenza. L’universo si è espanso nel nulla in virtù della pura violenza.
Le nostre anime sono state salvate da un atto di violenza». O anche: «la violenza era ripugnante. Eppure era inevitabile. Era inconcepibile. Ma era produttiva. Era vile. Ma ti faceva sentire vivo. Era disumana. Eppure profondamente, indissolubilmente umana. Come avrebbe risolto questo gigantesco koan?».
Già. Come? Avesse rivolto un po’ lo sguardo verso la nostra tradizione occidentale, avrebbe ricordato anche il koan di Karl Marx secondo cui: «La violenza è la levatrice della storia». Semplicemente. Ma in un romanzo questo tema alto e imprendibile da philosophia perennis è un macigno nella carreggiata narrativa se non sei Dostoevskij. Caduta massi.
Quanto alle modalità espressive in letteratura per fortuna, ed è questo il suo proprio, non esistono modi certi e assoluti. Esistono modi stabiliti ed accettati dalla prassi e dalla tradizione letteraria, non foss’altro perché funzionano, ed esistono modi proposti dalla libera innovazione. Secondo la mia esperienza di ipocrita lettore, fatto salvo l’onere della costruzione di una storia e del suo incastro coi necessari personaggi, è nella modalità espressiva che l’autore si gioca tutta la partita. Non cosa racconta ma come.
Qui si tenta un tono alto parascientifico, in concordanza mimetica col protagonista neurochirugo, forse. E con il ricorso incessante a linguaggi specialistici. Ora questa declinazione stilistica è sacrosanta e obbedisce a quanto scriveva Gadda ne I Viaggi la morte (nel saggio Le belle lettere e i contenuti espressivi delle tecniche) dove perorava l’apporto dei gerghi specialistici alla lingua letteraria. Ma occorre accertare se questi apporti tendono a fondersi plasticamente in un plus espressivo – come accade alla lingua spastica di Gadda – o se restano inerti ed esornative bellurie linguistiche che agiscono dall’esterno.
Probabilmente è la seconda che ho detto. Ne viene fuori una prosa lavorata (e anche fin troppo elaborata) con forte inclinazione scientista, di cui do alcuni lacerti:
«Aprendo gli occhi, nessuno dei due alterava la regolarità del ritmo respiratorio o l’armonia complementare dei movimenti: erano quindi reciprocamente inconsapevoli di partecipare alla puntualità euclidea di un risveglio contemporaneo».
In questo contesto linguistico le mestruazioni si chiameranno «catameniali occorrenze ematiche delle donne fertili» mentre «Davide sarà troppo occupato a studiare e poco sensibile alle lusinghe dei suoi stessi peptidi». L’evento di un temporale è reso con: «un incalzante drappello di cumulonembi aveva invaso il cielo crivellando d’acqua la città». E la descrizione di un viso: «il naso sottile, la fronte alta, gli zigomi sporgenti, il tutto sovrinteso da una specie di stranissima egida trigonometrica». (Corsivi miei).
È una tendenza alla accuratezza terminologica, si dirà. Sì, lodevole, ma alla distanza piuttosto fissa e stucchevole. Penso che neanche sotto tortura il nostro Bacà scriverebbe “imbalsamazione” o “impagliatura”, e infatti sceglie tassidermia (lo scrive quando Barbara compie quarant’anni e la giovinezza è svanita). Il semplice buco della serratura diventa il precisissimo ma astruso «meato della toppa», e i denti della forchetta? Bacà preferisce scrivere: «Davide prese la forchetta e affondò i rebbi tra i flutti vaporosi del risotto». Giustissimo i rebbi. Ma i flutti? Del risotto?
C’è un momento in cui la tornitura linguistica da scientista compulsivo deraglia e finisce nell’indistinto bello e suggestivo: il flou, dipinto di flou, come qui:
«Le persone cercavano o subivano un contatto, producendo occasioni di fraintendimento numerose quanto stelle e pianeti: corpi celesti di senso, nel glaciale nulla cosmico dell’errore di interpretazione».
La pagina diventa un ipertesto con link blu che si aprono in libere divagazioni, un po’ di tutto: dai morti di superlavoro giapponese (karoshi) ai candirù (Vandellia cirrhosa) piccoli pesciolini del Rio delle Amazzoni che risalgono l’uretra di chi vi si bagna nudo, rosicchiandolo tutto dal didentro, al secondo principio della termodinamica, alle ipotesi di Asimov sulla durata dell’universo, a episodi della storia della medicina come quello di Pedro Bach-y-Rita, poeta e insegnante catalano, che nel 1959 fu colpito da un ictus devastante e poi riabilitato dal figlio con una metodica che fece scuola… insomma nella migliore delle ipotesi, l’indice tematico del romanzo è molto simile a un numero di Focus, o a voler essere più clementi, di una puntata della trasmissione tv degli Angela, Quarck o Ulisse, il piacere della scoperta. L’ipotesi peggiore incombente è che ci troviamo difronte a una sorta di centone del meraviglioso superfluo alla Giacobbo. Per intanto la tensione narrativa, ci fosse mai stata, si allenta, e lo sguardo del lettore comincia a vagare per la pagina scambiandovi le lettere allineate per una teoria di piccole formiche sfocate.
Ma c’è di più. In itinere e a latere della trama l’autore imbastisce amari e saggi discorsi sapienziali, genere scompartimento ferroviario, di nuda deprecatio temporum (diamoci un po’ di tono con il latinorum noi criticoni). «La verità è che abbiamo dimenticato chi siamo», sbotta ai quattro quinti del romanzo. Andiamo, i vecchi cheyenne, a differenza di noi panciafichisti occidentali, avevano il presentimento della morte una settimana prima, tempo in cui compiere il bilancio della propria vita e distribuire i pochi beni agli eredi. «Un privilegio di quelli che un tempo chiamavamo selvaggi: da quanto un occidentale non ha una vera relazione con la Natura?». Segue un alato discorso al caminetto contro la sedentarietà, specie quella automobilistica «con il culo a frollare sul sedile dell’auto» (dalle notizie raccolte in rete si apprende che l’autore è maestro di “ginnastiche dolci” posturale e antalgica. Chi meglio di lui può rimproverarci, specie in questo momento che leggiamo il suo libro invece di farci una corsetta attorno allo stabile di casa?). Ma ecco, proseguire implacabile e consequenziale: le antiche connessioni neuronali dell’uomo ferino che siamo stati non si pérdono, abbiamo nel precordio le memorie delle Età eroiche, e pertanto chiamiamo i figli Enea, Achille, Paride, Ettore ecc, e, di tirata in tirata, di link in link estemporanei da filosofo pensoso, il Nostro rammemora il tizio che era stato chiamato nientemeno che John Wayne Bobbitt, e che… cosa fa la moglie? Gli taglia l’uccello! Seguono i particolari di cronaca per chi li avesse dimenticati. Con epiciclo moralista aggiunto verso il povero evirato, chiamato a rappresentarci tutti, perché il nostro Bobbitt: 1) «non ha mai imparato a riconoscere, e di conseguenza a rispettare, il Potere dentro sua moglie». Testuale. Dentro non in. Non si capisce come ma la preposizione non sembra scelta a caso, a significare cosa non sappiamo; 2) aveva trasformato la sua vita in un gigantesco koan, che nel linguaggio della vecchia filosofia greca, sarebbe un’aporia insolubile. Tralascio la divagazione sul buddismo zen cui quest’ultimo termine rimanda e qualsiasi cosa di specifico voglia dire nel contesto dato. Tutto questo menare il can per l’aia accade prima di decidersi a imprimere alla sua vicenda la torsione della scena madre finale e il conseguente epilogo.
Si resta smarriti sotto questa cascata incessante di farraggine midcult, di questo tono sostenuto e scelto (elegante è elegante, eh, ma di una eleganza tutta di testa, fredda e programmatica) con giro di frase impostato su uscite di solennità scientifiche talvolta inconcludenti («bizzarrie aneddotiche da mensile divulgativo» vi leggiamo in un momento di lucidità, ma rivolto ad altro e ad altri), di questo viluppo sapienziale incartato sotto elegantissima copertina grigia e logo Adelphi, propostoci ahimè dall’editore che ci offriva in lettura nella nostra meglio gioventù tutto il Guido Morselli inedito e il Nietzsche di Colli-Montinari fino ad allora mal interpretato. Ciò accadeva quando noi lettori non eravamo sospettose canaglie ma giovani speranzosi e aperti a tutte le modalità del visibile e alle sorprese del reale: nudi sopra il cuore del mondo, detto nel tono enfiato e nel voltaggio espressivo di questo ambizioso e periclitante romanzo.
*
Finalisti PREMIO STREGA 2022
A fianco di ogni libro troverete il link alla sua recinzione (recingere con un testo un altro testo) su questa rivista man mano che pubblicherò le recinzioni dei 12 romanzi finalisti.
I finalisti sono:
1. Marco Amerighi con “Randagi” (ed. Bollati Boringhieri), presentato da Silvia Ballestra. urly.it/3ny2q
2. Fabio Bacà con “Nova” (ed. Adelphi), presentato da Diego De Silva. urly.it/3nypf
3. Alessandro Bertante con “Mordi e fuggi” (ed. Baldini+Castoldi), presentato da Luca Doninelli. urly.it/3nvnf
4. Alessandra Carati con “E poi saremo salvi” (ed. Mondadori), presentato da Andrea Vitali. urly.it/3p5zh
5. Mario Desiati con “Spatriati” (ed. Einaudi), presentato da Alessandro Piperno. urly.it/3nv-j
6. Veronica Galletta con “Nina sull’argine” (ed. minimum fax), presentato da Gianluca Lioni. urly.it/3p89p
7. Jana Karšaiová con “Divorzio di velluto” (ed. Feltrinelli), presentato da Gad Lerner. urly.it/3nx4h
8. Marino Magliani con “Il cannocchiale del tenente Dumont” (ed. L’Orma), presentato da Giuseppe Conte. urly.it/3n-nv
9. Davide Orecchio con “Storia aperta” (ed. Bompiani), presentato da Martina Testa. urly.it/3p34g
10. Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij” (ed. Rizzoli), presentato da Renata Colorni. urly.it/3nzhn
11.Veronica Raimo con “Niente di vero” (ed. Einaudi), presentato da Domenico Procacci. urly.it/3nsnm
12. Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (ed. Ponte alle Grazie), presentato da Loredana Lipperini. urly.it/3nrz8
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