Letteratura
L’incoscienza di una moltitudine, o la coscienza di Zeno
Svevo inizia a scrivere La coscienza di Zeno nel 1919, portando al termine l’opera tre anni dopo. La pubblicazione è del 1923, a spese dell’autore. Egli presenta un personaggio nuovo, fuori dagli schemi abituali, sempre in precario equilibrio sul filo del fallimento e della malattia. Un personaggio che la storia della letteratura del nostro paese incontra per la prima volta. Il successo, manco a dirlo, arriva prima in Francia, grazie all’intervento di James Joyce, amico di Svevo, che inviò il romanzo ad alcuni scrittori e critici, tra cui Valéry Larbaud, Benjamin Crémieux, Thomas Stearns Eliot.
Cosa incuriosisce di Zeno Cosini, un ricco triestino che per liberarsi dal vizio del fumo si sottopone a una cura psicanalitica, dove gli si chiede di mettere per iscritto la propria vita? Per questa fatica letteraria si è parlato di un tempo misto: il continuo intrecciarsi dei piani temporali della narrazione, ora al presente ora al passato prossimo e passato remoto, conferisce all’impianto narrativo uno schema innovativo rispetto al romanzo tradizionale, non seguendo un ordine cronologico. L’io narrante, qui, adotta il monologo interiore per contemplare e unire il presente con il passato tramite riflessioni e ricordi. Si ha un libro simile a un’autobiografia, senza tuttavia esserlo in maniera canonica. Lo schema interesserà, di lì in poi, diversi romanzi e sarà presente nella filmografia di diversi registi.
Ma, chi è Zeno? Di sicuro un personaggio inventato che riproduce qualche aspetto dell’autore, senza rappresentarne perfettamente l’indole. È un esponente insofferente della classe borghese, all’interno della quale non riesce a integrarsi, come, forse, preferirebbe. Zeno oscilla, infatti, continuamente tra malattia e salute, coscienza e inganno, socialità e isolamento. La caratteristica più peculiare di Zeno consiste nella sua trasformazione in un narratore non attendibile, nel senso che non si può essere certi di quello che egli va raccontando. Egli interpreta dei fatti che corrispondono alla realtà? Il dubbio è espresso in modo abbastanza chiaro nella prefazione del dottore, quando questi si riferisce alle «tante verità e bugie ch’egli (Zeno) ha qui accumulato».
Zeno è inadeguato a vivere nel mondo borghese di cui fa parte, si sente a disagio e prova un continuo senso d’inferiorità. Tuttavia, egli non riesce a sottrarsi a quei valori, pur avvertendoli come falsi, continuando a vivere nella contraddizione. Ha, però, una peculiarità che lo distingue e in qualche modo lo allevia: l’ironia. Mentre fa autoanalisi Zeno tende a sfuggire dalla serietà delle osservazioni su se stesso, cercando di non prendersi troppo sul serio. Zeno intuisce che la serietà può essere ingannevole e illusoria, e preferisce presentarsi come un personaggio quasi comico, mantenendo una certa leggerezza anche nelle situazioni più drammatiche.
Facendogli ripercorrere le vicende della propria vita, il medico spera che il paziente riporti a galla il trauma che ne ha determinato la malattia, il suo non saper stare al mondo e i motivi della sua inettitudine. Ma, la cura sembra non aver effetto e Zeno l’abbandona. Il colpo di scena finale è interessante e sintomatico: una volta abbandonata la cura Zeno si dice guarito, grazie a un inaspettato successo commerciale. Gli stessi meccanismi del mondo che lo ha fatto ammalare lo hanno risollevato e curato. Ed è su un simile processo della coscienza che bisognerebbe riflettere: noi, come Zeno? Detestiamo il mondo da cui ci escludiamo, ma, se ci capitasse di entrarvi da protagonisti finiremmo per accettarne comodamente le regole, evitando di trovarle assurde e respingenti?
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