Letteratura

Libertà e necessità nella tragedia greca

21 Maggio 2023

 

Agli inizi degli anni ’70, noi iscritti alla Facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano eravamo quattro gatti, perlopiù introversi e secchioni, quelli che oggi verrebbero definiti “nerd”. I nostri coetanei umanisti preferivano studiare filosofia o letterature moderne, ritenendole giustamente più aderenti alle inquietudini sociali dell’epoca. Per cui, in un manipolo di cinque sei studenti intenzionati a scrollarci di dosso l’accusa di elitarismo e anacronismo, avevamo fondato il CUB Lettere Classiche, guidati da una battagliera Renata. Proponemmo con velleitaria ingenuità ai nostri docenti di attualizzare l’insegnamento di latino e greco, per adeguarlo alla contemporaneità. Pressoché tutti gli accademici risposero con un sorriso di compatimento, tranne l’illustre grecista Prof. Dario Del Corno, che affidò a un suo giovane assistente il compito di organizzare per noi un seminario di storia degli studi classici, che esplorasse diacronicamente i diversi approcci ideologici con cui il mondo occidentale aveva indagato l’antichità. Questo volonteroso e preparato ricercatore si chiamava Giulio Guidorizzi (Bergamo 1948), e nei decenni successivi, diventato professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Torino, si è distinto come ellenista, traduttore, studioso di mitologia e di antropologia del mondo antico. Autore di importanti opere di saggistica e di manuali scolastici, ha pubblicato da Einaudi alcuni volumi divulgativi sulla cultura classica, l’ultimo dei quali si intitola Pietà e terrore. Diviso in due parti, nella prima sezione vengono definiti i caratteri fondamentali della tragedia greca, nella seconda si esaminano sedici delle trentatré tragedie che ci sono rimaste, approfondendone i tratti peculiari e reinterpretandole quasi romanzescamente.

Il teatro greco nacque ufficialmente nell’anno 535 a.C., quando il tiranno ateniese Pisistrato introdusse all’interno delle feste pubbliche un nuovo tipo di spettacolo per celebrare l’inizio della primavera e Dioniso, dio della natura vegetale, del vino, della sfrenatezza dei sensi. Momento rituale, quindi, in cui la città intera veniva coinvolta nella finzione scenica, mettendosi in gioco attraverso le parole del poeta. Questa dimensione sociale del teatro greco è resa evidente dal fatto che l’azione si svolgeva all’aperto, in uno spazio pubblico, alla presenza di spettatori che si appassionavano, si commuovevano e indignavano davanti alla rappresentazione dei loro miti e valori culturali. La tragedia (etimologicamente “canto del capro”, perché proprio un ovino era consegnato in premio al vincitore del concorso teatrale), rispetto all’epica che l’ha preceduta, non è semplicemente una narrazione di avvenimenti esterni, ma è un’azione che mette in scena una serie di eventi che travolgono i personaggi, di volta in volta vittime del caso, di un destino malefico, di una scelta sbagliata, di un impulso irragionevole o bestiale. Non prevede il trionfo del bene, né alcuna ricompensa alla sofferenza, o qualsiasi redenzione futura: ciò che accade non si perpetua nell’eternità, ma rimane circoscritto nel ‘qui e ora’ di un tempo breve, spesso nell’arco di una sola giornata. Rappresenta il passaggio repentino da una condizione all’altra, dalla gioia alla sofferenza, precipitando verso la catastrofe. L’esistenza delle persone è inspiegabilmente sottoposta “al travaglio del tempo e al furore di altri uomini”, o determinata da una forza cieca interiore, da un “male oscuro” che afferra il protagonista quando si trova all’apice della gloria o della felicità: “Io so che sto per compiere una cosa terribile, – dice Medea poco prima di uccidere i suoi figli –, ma il mio impulso è più forte della mia volontà”.

Il destino misterioso (la mòira omerica) colpisce sotto le sembianze di un incontro, di un oracolo, di una caduta, di una pestilenza. Gli umani non ricavano alcun beneficio dalla loro sofferenza, ma imparano a conoscersi, a valutare le proprie resistenze e cedimenti: “Il contributo principale alla storia del pensiero occidentale – oltre che, naturalmente, a quella della letteratura – è la scoperta del mondo interiore. Completamente nuovo è il modo in cui la tragedia racconta il ‘dentro’ dell’uomo, l’impasto di impulsi ed emozioni che portano un essere umano ad agire contro ogni ragione e persino ad autodistruggersi: Aiace a suicidarsi, Edipo a cavarsi gli occhi, Antigone e immolarsi, Fedra ad amare follemente l’uomo che poco dopo trascinerà nella sua rovina insieme a sé”. I personaggi tragici (quelli monolitici di Eschilo, quelli sfuggenti di Sofocle, quelli contraddittori di Euripide) conoscono il bene eppure compiono il male, disubbidendo agli insegnamenti morali della filosofia: per questo Platone condannava la tragedia, scorgendo in essa il trionfo dell’irrazionale, delle passioni irrefrenabili che conducono ineluttabilmente ad azioni colpevoli, violando il limite imposto dalla legge con un atto di hýbris. Accade spesso che ad agire sovvertendo l’ordine siano le donne, sia quando incarnano un dramma sentimentale privato, sia perché simboleggiano il conflitto antropologico del sistema politico ateniese, tra città e clan famigliare, tra cultura e natura, tra ragione e istinto. Le donne, più ancora degli uomini, comunicano “pietà e terrore, due pulsioni opposte perché la pietà avvicina e il terrore allontana”. Attraverso le emozioni forti dei protagonisti, agisce la catarsi, che coinvolge non solo gli attori ma tutto il pubblico, liberando e purificando dalle esperienze traumatizzanti e dai conflitti vissuti in prima persona o ritrovati sulla scena.

La seconda parte del volume di Giulio Guidorizzi, ben più corposa della prima, è dedicata all’esposizione e alla ricostruzione narrativa di sedici tragedie: cinque di Eschilo, cinque di Sofocle, sei di Euripide. L’autore rievoca miti ed episodi storici del passato, ripercorre i poemi omerici, ricostruisce ambienti, inventa monologhi e dialoghi, dà voce a protagonisti e comparse, componendo un grande affresco della cultura e della civiltà democratica greca del V secolo. In tutte le opere rivisitate esplodono passioni incoercibili (vendette, tradimenti, amori, risentimenti, rancori, gelosie), si succedono omicidi, suicidi e stragi, e sebbene le scene di sangue e violenza non vengano mai mostrate, ma raccontate da qualche messaggero o testimone oculare (parenti, servi, nutrici), o direttamente dal coro e da divinità in sembianze umane, l’effetto raggiunto coinvolge sempre, terrificante o commovente che sia. Valga per tutti l’esempio dell’Edipo re di Sofocle, il cui protagonista vive in una continua tensione tra sapere e non sapere, dire e nascondere, temere e sperare, fino allo svelamento finale del parricidio e dell’incesto, alla rovina che si compie in un giorno solo. Tragedia perfetta secondo Aristotele, “guida per penetrare nei meandri dell’inconscio” secondo Freud, che ne ricavò il nome per descrivere il complesso che lo rese famoso.

Il volume di Giulio Guidorizzi rappresenta senz’altro un’utile introduzione alla conoscenza dell’antica Grecia per i neofiti dell’argomento, e una piacevole e avvincente lettura per chi voglia recuperare memorie scolastiche colpevolmente trascurate.

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GIULIO GUIDORIZZI, PIETÀ E TERRORE. LA TRAGEDIA GRECA – EINAUDI, TORINO 2023, p. 232

 

 

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