Letteratura
Liberi tutti “Nel contagio” (Diario del coronavirus – fine)
Molto spesso succede così. Mi compro un libro, pago con il bancomat, in libreria o on line. Se lo compro in libreria, mi piace tenerlo nella busta di carta fornita dal negozio. Talvolta lo metto nello zaino, quello nero, tecnico, che adoro, con cui vado ovunque, a scuola, nei monti, dal medico. Poi giunto a casa lo sfoglio, lo annuso e lo deposito sopra qualcosa. Qualsiasi cosa: un altro libro, una mensola, il letto. Capita che lo lasci incellofanato. Ciò accade soprattutto con i libri che ho letto e amato e poi prestato (attitudine tipicamente da insegnante), ma scordandomi a chi. Ad esempio Storia notturna di Carlo Ginzburg, devo averlo comprato e regalato almeno un paio di volte, dunque la terza copia la tengo chiusa. Sta là nella mensola, sepolta da altri libri, in attesa di essere riaperta chissà quando. Quando ordino un libro su Amazon, preso da una frenesia quasi alcolica, dopo pochi giorni arriva il pacco e la procedura del deposito è la stessa. Prendo i libri, butto la scatola nello sgabuzzino e li lascio da qualche parte. Stanno là. Posso dire “ce li ho”, come una volta si faceva giocando a figurine. Sindrome di accumulo compulsivo? Può essere. In ogni caso, non è esattamente di questo che voglio parlare.
Oggi giornata stupenda, vivo in un paese della Val di Non, urge uscire. Qui già da qualche giorno si può, varcando il limite “di prossimità” – non si sa perché da qualcuno formalizzato in duecento metri – al quale prima tutti noi s’era costretti. Delineandolo su questa base numerica di duecento metri di raggio, m’ero costruito da circa i primi di aprile un percorso mio che pressappoco tracciava una lunghezza di due km. Sì insomma, non era proprio il raggio di un cerchio, con un diametro di quattrocento metri, ma non sarebbe stato qualche metro in più o in meno a farmi sgarrare, a incorrere voglio dire in una sanzione da parte di qualche vigile. Tanto più che, paese piccolo, del trentino, ci si conosce quasi tutti (anche me conoscono, che son foresto, ma io non loro), voglio dire vigili e/o carabinieri – orfani della palestra dove insieme andiamo a sudare ma che ora è chiusa – mi conoscono e sanno che sono del luogo. Insomma, non ci sarebbe stato problema, se mi tenevo “nelle pertinenze”… Dunque uscivo ogni giorno, dopo le 18, 30. Dopo aver sentito il bollettino dei morti che guardavo nella diretta televisiva. Avevo la mia brava mascherina, il cappello, la cuffia wi-fi, il cellulare, e facevo il mio giro. La prima volta ricordo c’era quel misto di timore e meraviglia che si prova sperimentando qualcosa di proibito. Di per sé la cosa era fattibile, ma non vedevo nessuno, e qualcuno di cui incrociavo lo sguardo sulla strada o più spesso dai balconi mi guardava come in certi film western uno straniero che entra in uno di quegli abitati sperduti della frontiera. Abbassando la mano sulla pistola e alzando il cane.
Poi, giorno dopo giorno, è diventata una routine. Cinquanta minuti, talvolta un’ora, facendo lo stesso percorso due tre volte. Intanto ascoltavo qualche audiolibro. Un giorno, tradendo il fido Audible, ho visto che Raiplay aveva messo audiolibri interi di brevi classici, letti nella trasmissione Ad alta voce. Ho scaricato La peste di Camus, letta da Remo Girone. Una rivelazione. No non l’avevo letto. Lo so, certi libri vanno letti: ma a me piace confessarlo, dei classici ho letto pochi, ma talvolta quei pochi anche più di una volta. Sono un lettore ricorsivo. Vabbè, Camus, La peste, semplicemente geniale. La descrizione di quello che sta avvenendo adesso. Quasi profetica, con uno spessore psicologico che raramente si trova. Senza molte descrizioni interiori, quasi solo dialoghi. Riesce a rendere lo stato d’animo, le dinamiche psicosociali e talora anche sanitarie dell’epidemia.
Poi tre giorni fa mi cade l’iphone e iniziano a ballare le immagini dello schermo. Nel tentativo maldestro di aggiustarlo, lo apro (avevo ancora i ferri del precedente quasi riuscito cambio di batteria fatto in casa), e nel farlo rompo dei cavi di connessione. Insomma, andato, kaputt, da buttare. Evocazioni creative di divinità di vari pantheon…
Recupero un vecchio Iphone che davo a mio figlio per giocare, reinstallo tutte le mie app, o quasi. E oggi, giornata stupenda, 3 maggio, prendo ed esco. Prima passo dal giornalaio a comprare Mind. Boh, mi incuriosiva. Poi inizio a camminare in salita, verso Boiara bassa, sopra Cles.
Cosa ascolto? Avevo iniziato ieri Risveglio di Jon Kabat-Zinn, il guru della mindfulness. Interessante, i primi quindici minuti. Poi viene voglia di drogarsi e correre nudo nella via principale del tuo abitato, per “cadere nell’esistenza” e vedere l’effetto che fa. Cambio genere. Iniziare Guerra e pace? Mmm, centosettantotto ore di ascolto. Per carità l’attore legge da dio, epperò…. Proviamo Sepulveda: è morto da poco, insomma tutti i miei amici lo conoscono, bisogna almeno ascoltare Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Lo legge Edoardo Siravo, attore che amo, dal quale ho sentito diverse cose di Terzani. Ascolto i primi dieci minuti, no, non fa per me.
Allora dico: ma sì dai ascoltiamo Paolo Giordano, Nel contagio.
E qui torno all’inizio: io il libretto lo avevo comprato, ma stavolta in edicola; poi l’avevo lasciato sul tavolo della cucina, sepolto da vari manuali scolastici, i Diari di Kafka, penne scappucciate, due paia di occhiali da presbite appannati, un fazzoletto usato, briciole di chissà quale cracker sgranocchiato spiegando, due orologi di cui uno con la batteria scarica e uno a molla.
Lo avevo comprato, Nel contagio, perché avevo visto lo scrittore dalla Gruber. Giovane e bello. Sì, lo so che Paolo Giordano ha scritto La solitudine dei numeri primi, che ha vinto lo Strega. Ma non l’ho letto, come non ho letto la maggior parte dei libri che bisogna leggere e che la gente dice di aver letto, soprattutto i frequentatori dei social.
Però questo l’ho ascoltato su Audibile, e mi ricordava vagamente Jonathan Safran Foer, Se niente basta (a proposito, leggete tutto ciò che vi capiti di suo e di corsa!). Certo meno geniale, ma scrive chiaro, capitoli brevi e didascalici, stile colloquiale e sufficientemente informato da farci sentire pieni di autostima quando lo leggiamo.
Mentre ascoltavo camminavo e sudavo. Un cane mi ha raggiunto, stavo per accarezzarlo quando ho udito l’urlo di richiamo della padrona dietro, che ne dissuadeva la spontanea affettuosità espansiva per evitargli di divenire vettore inconsapevole del morbo. E tuttavia: intere famiglie a branchi, a quanti di energia batterica mi venivano incontro, spostandosi nel sentiero giusto quel tanto che serve per esibire un distanziamento sociale palesato con ostentazione come obbligo formale. Io bardato con occhiali mascherina e sudore negli occhi, loro confabulanti a volto scoperto in ameni conversari e con l’aria da tana libera tutti.
E intanto ascoltavo dal libro di Giordano la questione della curva esponenziale. Una biglia ne colpisce due, R0 è la sigla che segnala la curva del contagio e la curva esponenziale non è lineare.
In Trentino si è aperto tutto con R0 di 1,3. Interessante, vero? Piuttosto, inquietante… ma cosa importa?, è primavera, usciamo, “godiamo pecchiamo dammiti prendimi cuccurucù”.
Da qualche parte ho letto che questa COVID19 (“la” non “il”, perché disease si traduce malattia in italiano) è come un terrorista . Fa il primo colpo, la gente esce a vedere e bum! arriva il secondo colpo che compie la strage. Sarà la seconda ondata quella catastrofica, dicono.
Insomma dalla mattinata di oggi e dal libro traggo due o tre promemoria: primo, che la matematica è interessante, se la usi per spiegare cose complesse. Il pensiero magico non aiuta, mette ansia, scrive da qualche parte Giordano.
secondo: va bene uscire per andare a camminare nei boschi, ma non a gruppi familiari di intere abitazioni. Da-soli-e-con-la-mascherina.
(Che stupendo animale è l’uomo. Sociale. Intelligente. Pieno di survivor-bias. Vettore ideale per un virus babbeo come il SARS COVI2 )
Ah, terzo: se ci va di culo, questa epidemia ci libera dal sovranismo.Dovrei motivare questa asserzione? Sì, ok, ne parliamo un’altra volta.
Si intuisce una cosa ma non ci va di spiegarla, molto spesso succede così.
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