Letteratura

Letteratura e crisi. Angelo Piemontese, “Il lungo addio all’impegno”

13 Luglio 2023

Con Il lungo addio all’impegno. La narrativa italiana dalla ricostruzione alla caduta del Muro di Berlino, Angelo Piemontese prosegue l’analisi critica del panorama letterario italiano iniziata con la monografia su Pavese (Riflessi sull’anima) e maturata poi con il successivo saggio Realismo e Neorealismo. Correnti involontarie.

Il lungo addio all’impegno indica le tappe del cedimento progressivo di quella passione intellettuale, che aveva avuto nel Neorealismo la sua vetta apicale e che aveva trovato alcune delle sue traduzioni etiche più nobili nell’esplicito rifiuto di Pavese verso il modello di vita fascista e nella distinzione operata da Vittorini tra Uomini e no. Ne è derivato uno spazio vuoto che – nota chiaramente Piemontese – è rimasto incolmato o che si è tradotto nella produzione di una semplice letteratura di consumo.

Con il trionfo di un pensiero unico a sfondo mercatista, il dominio della società delle immagini e la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale da mediatore valoriale a mero intrattenitore, ad opera dei mass media, e infine con l’avvento del Postmoderno e il crollo di ogni ubi consistam, ben registrato da Eco nel suo bestseller Il nome della rosa, gli intellettuali sono stati costretti a prendere atto della marginalità della letteratura e del suo ruolo rispetto ad un mondo assuefatto a un “ilare nichilismo” (per usare una definizione cara a Luperini), ad un edonismo fatto di soddisfazioni istantanee, caratterizzato dalla pretesa dell’I want it all, I want it now, come cantavano i Queen. Sullo sfondo di questo mondo senza orizzonti di significato e segnato dall’evaporazione di senso, A. Piemontese registra la rinuncia del ceto intellettuale a tracciare possibili prospettive, a cercare risposte pur nella rassegnata consapevolezza della loro insufficienza e mancanza di definitività. Si affermano di conseguenza, tra le tendenze narrative, la graduale chiusura nell’analisi psicologica, nella dimensione privata, lo slittamento verso intrecci antistorici e antimanzoniani, l’approdo ad allegorie intrappolanti come quella del labirinto, scelta per esempio da I. Calvino come emblema di un mondo privo di senso, un ostacolo certo da affrontare virilmente, ma senza alcuna garanzia di una exit strategy.

Angelo Piemontese innesta la sua indagine critica su un quadro storico-culturale accuratamente delineato e individua alcuni fattori di destabilizzazione che costituiscono il background di cambiamenti epocali dal secondo dopoguerra in poi:

–       la crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono della terra e dei comuni del Mezzogiorno d’Italia;

–       la fine della famiglia tradizionale e l’avvento di nuove forme di vita in comune;

–       boom economico e radicale trasformazione di stili di vita, immaginario, ruoli sociali, dinamiche relazionali;

–       influsso massiccio dei media nella omologazione di gusti e comportamenti.

Il fallimento, poi, dell’azione bellica intrapresa dagli USA in Vietnam, con il carico enorme di perdite umane e materiali, con il lascito pesante di un’umanità impoverita sotto tutti i profili, è considerato da A. Piemontese un momento estremamente significativo, da cui prende avvio una nuova condizione culturale: vengono meno le residue persistenze di forme di impegno intellettuale e tendono a prevalere, invece, atteggiamenti di ripiegamento, sfiducia, smarrimento che segnano l’abbandono di ogni slancio propositivo, di qualsiasi spinta attivistica o anche solo volontaristica.

Ancora prima dell’abbassamento della letteratura a prodotto di mercato – effetto della forza pervasiva di concezioni iperliberistiche che hanno nel tempo colonizzato ogni campo d’azione umana – Piemontese fa coincidere, per esempio attraverso l’asse Tomasi di Lampedusa-Morante, la fine dell’impegno con la fine della Storia, cioè della storia manzonianamente intesa come un cammino progressivo verso un fine ultimo positivo e le cui tappe, pur dolorose, si configurano come momenti, sì, critici, ma pur sempre superabili in vista di uno scopo che sub specie aeternitatis si situa come bene superiore.

Già dopo l’emblematico naufragio verghiano della Provvidenza, Il gattopardo è chiaramente citato da Piemontese come espressione dello smarrimento delle coscienze e come riferimento di un ceto intellettuale che ha rinunciato alla sua carica civile, un ceto che del ripiegamento introspettivo ha fatto la sua cifra ormai distintiva e che nella rinuncia riconosce il marchio della propria impotenza rispetto ad un’azione trasformativa e incisiva sulla società. Del resto, lo dice chiaramente il Principe di Salina a Chevalley, parlando dei Siciliani che di fatto nel suo discorso assurgono a categoria esistenziale e smettono, cioè, di essere un’entità meramente geopolitica: “siamo stanchi e svuotati” esattamente come la generazione di intellettuali che Tomasi di Lampedusa rappresenta, un ceto, cioè, spossato dal peso di un “secolo breve” – espressione con cui E. Hobsbawm ha definito il Novecento – e schiacciato da quell’insostenibile leggerezza dell’essere alla quale Kundera ha addebitato l’irrimediabile perdita di tutti i parametri di riferimento nel magma indistinto di un fluido relativismo.

L’atroce carica distruttiva del Novecento sembra trovare una rappresentazione ancora più chiara nel romanzo La storia di Elsa Morante. Secondo la nota scrittrice la storia travolge tutti, è il regno dell’assurdo. All’incipit del romanzo, lo stupro di Ida Ramundo ad opera di un giovane soldato nazista, è l’allegoria di un’Italia – forse di un’intera Europa – stuprata, violata irrimediabilmente da eventi che hanno prodotto un vulnus non ancora cicatrizzato. E di fronte a questo “scandalo” – termine che Morante usa per definire la Storia come un apocalittico trauma che distrugge senza pietà – quale può essere il ruolo dell’intellettuale? Quali i binari della sua azione? Come può ancora configurarsi il suo impegno?

A simili quesiti c’è forse una possibile, transitoria, risposta: all’esistenza intesa montalianamente come “immoto andare” lungo invalicabili cortine e muraglie, Piemontese oppone con Calvino, il valore della sfida al labirinto dell’esistenza: del labirinto bisogna conoscere le mappe, occorre sapere che non esistono facili vie d’uscita, ma agli intellettuali, alla letteratura, si chiede di non cedere, di non accettare la resa incondizionata all’oggettività come dato immutabile. Gli intellettuali non possono abdicare al loro compito, cioè, dare forma all’informe, nota Piemontese, rendere chiare le cose, “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”, scrive Calvino nelle Città invisibili.

L’autore del Lungo addio all’impegno attraverso la sua puntuale analisi della letteratura del Novecento traccia un quadro della nostra storia e scegliendo di chiudere il suo saggio con le opere di Calvino sembra condividerne la prospettiva aperta, l’interesse, cioè, per “l’uomo nei rapporti con ciò che lo circonda, nei suoi cambiamenti senza certezze assolute a cui appoggiarsi, ma legato alla sua responsabilità e libertà, anche a costo di sofferenze” (p. 443). Tuttavia proprio la parabola dell’attività letteraria di Calvino, nota il saggista, contiene un punto di svolta: “egli ha prima combattuto per un’Italia diversa, ha vissuto poi le vane speranze di un suo profondo rinnovamento, non arrendendosi di fronte al loro evidente naufragio e, cercando fuori dall’angusta realtà italiana, nuove risposte, non sempre soddisfacenti” (p. 464-465) ed è alla fine approdato – con i suoi ultimi testi narrativi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il castello dei destini incrociati –  a quelle che F. La Porta ha definito “sapienti macchine combinatorie, narrazioni elegantemente vuote” che dimostrano un solo dato: “non ci sono più storie da raccontare”, ci ricorda Piemontese (465).

Questa constatazione costituisce il presupposto dell’amara tesi del saggio in questione: proprio l’evoluzione della poetica e della riflessione di Calvino ha reso evidente che è venuta meno negli scrittori “la necessità di impegnarsi nel tentativo di mutare le storture della società” (p. 468).

L’addio all’impegno ha una radice ancora più profonda: “lo sviluppo impetuoso dei mass media e l’inarrestabile avanzata del consumismo e delle leggi di mercato hanno portato gli scrittori a perseguire una narrativa più vicina alle richieste del pubblico e alle esigenze di vendita dei lettori” (p. 468).

La fine dell’impegno ha una sua evidente matrice: “conta esclusivamente il mercato”, scrive lapidariamente Piemontese.

E all’intellettuale non resta che accettare la sua condizione degradata “al servizio di istituzioni pubbliche e private” o di “addetto alla cultura come spettacolo” (p. 472). In un panorama di forte saturazione, di trionfo del “già detto”, di inevitabile rinuncia a “scoprir nuovi mondi” (476) – parole di V. Spinazzola che Piemontese non tralascia – non possono che restare frammenti disarticolati incapaci di restituire senso a un mondo naufragato, incenerito.

L’intellettuale dunque, conclude Piemontese, non può che “riutilizzare i reperti del passato per ottenere risultati spettacolari” (p. 476), ma non certo per indicare vie da seguire o fornire messaggi rivelativi. È emblematico il riferimento, al termine del saggio, a Il nome della rosa. Nella pagina conclusiva del romanzo di U. Eco, il protagonista Adso da Melk dichiara inequivocabilmente: “non mi resta che tacere (…). Fa freddo nello scriptorium”.

Così, nel silenzio e nel gelo di un immenso deserto, l’intellettuale dà il suo definitivo addio all’impegno.

Angelo Piemontese, Il lungo addio all’impegno,  Genesi editrice, Gennaio 2023, pp.479

Il presente articolo è consultabile anche al seguente link:

 http://laprofonditadellecose.blogspot.com/2023/06/angelo-piemontese-il-lungo-addio.html

 

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