Letteratura

Lettera a Dina: magnetizzante l’ultimo libro di Grazia Verasani

26 Settembre 2016

Trentasette anni fa, tua madre, al telefono con la mia: «Signora, sono la mamma di Dina. Sua figlia può venire da noi dopo la scuola? Gliela riporto a casa per l’ora di cena”.

Le anime non hanno sesso, cantava Battisti, e l’amicizia è bene o male una forma d’amore. Deve essere per questo che due ragazzine, dissimili per educazione ed ideali si legano indissolubilmente, si attraversano e senza saperlo si condizionano, piantandosi l’una nell’esistenza dell’altra, oltre il tempo. Il plot del nuovo romanzo della scrittrice Grazia Verasani Lettera a Dina (Giunti editore) è semplice: una donna ascolta alla radio E mi manchi tanto degli Alunni del sole e ripiomba in avvenimenti con i quali non ha fatto pace.

Bologna, anni Settanta. La nostra donna, protagonista e voce narrante, è ancora una preadolescente. Frequenta le medie e si dice comunista come se fosse l’autodefinizione più ovvia per una della sua età. Nella sua classe arriva una coetanea: si chiama Dina, è bionda, florida, snob, indossa una pelliccia e si dice fascista. Le due si studiano e dopo un’iniziale diffidenza diventano inseparabili. Le loro giornate scivolano via tra la scuola e i dischi da ascoltare, rimpinzandosi di dolci e fantasticando chissà che. Oltre le due amiche, la loro intesa elettiva, il loro mondo, fatato e inaccessibile, di piccoli riti, scoperte, condivisioni, ironie e ribellioni, pesano le attese degli adulti, i loro capricci, i loro egoismi. Dina, in particolare, vive come un dramma la separazione dei suoi e l’incapacità della madre, bella e svampita, di manifestarle amore anziché sfiducia. La bambina morbida e sfacciata dai capelli paglierini si perde. Resta una donna autolesionista, inaffidabile, estrema.

Mentre Dina affonda, l’altra vive, rapita dalla politica, dalla musica, in una città infiammabile. Lei e Dina, che prova anche a togliersi la vita, si allontano, girando in tondo. Si ritrovano nei pensieri o nelle inattese rentrée di D. che reclama dedizione assoluta a quella sua amica così diversa o forse uguale ma più risoluta (“Per un tacito accordo, non parliamo di quello che è successo. Tu non sei tipo da chiedere scusa e io sono una che dimentica in fretta, o forse sono solo contenta di averti ritrovata. A L. che mi chiede come ho potuto perdonare la tua puzza sotto il naso, rispondo che in fondo sei buona. «Non hai un briciolo di orgoglio» mugugna lei. La verità è che con te mi diverto come con nessun’altra”). Di tutto questo – accaduto anni prima dal presente narrativo – veniamo a conoscenza attraverso la lettera che la protagonista scrive a Dina. Un lampo su quanto è stato, mentre di Dina si ricercano le tracce (“A fine luglio, prima di partire per la Sardegna con marito, figli e cani, P. mi avvertì di avere parlato con un amico che lavorava all’ufficio anagrafe del Comune e di avergli chiesto di compiere una piccola ricerca. Lui le aveva riferito che tu risultavi irreperibile dal 1989”). Del destino di Dina leggerete nel libro.

In questo libro per niente corposo ma magnetizzante. Merito dello stile, della scrittura di Grazia Verasani che ha il sapore della sigaretta dopo del caffè, il suono di un disco malinconico, il colore di un locale semibuio dove suonano rock e jazz. Anche Verasani racconta per sottrazione: omissioni, non detti, risate ad occhi bassi, sguardi fulminei, menti che si sfiorano e non hanno bisogno di troppe parole. Se c’è una stagione giusta per ogni libro, l’autunno sembra fatto per Lettera a Dina: avvolgente e intenso. Come un buon bicchiere per chiudere una giornata anonima, rallegrandosi, nonostante tutto.

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Foto di copertina: © Jurgen Burgin

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