Letteratura

L’eterna paura della fine

4 Gennaio 2021

Tangibili, ossessive, onnipresenti sono le paure che attanagliano oggi il genere umano, fino a un anno fa illuso di una sua inscalfibile e ingegnosa abilità (intellettuale, culturale, fisica) nel controllare gli eventi naturali e storici, e adesso improvvisamente preda del panico di fronte al dilagare di un microscopico virus, minaccia di estinzione universale. Sono le incontrollabili paure dell’ignoto, rimaste uguali nel corso di millenni, con la capacità di rendere le popolazioni non solo più fragili, ma addirittura barricate in trincee difensive, di scarsa apertura e solidarietà comunitaria.

La più importante medievista italiana, Chiara Frugoni (per anni titolare di cattedra nelle Università di Pisa, Roma, Parigi) nei suoi lavori ha sempre sottolineato come il contributo scientifico delle testimonianze scritte equivalga a quello delle arti figurative. Lo ha esemplificato nei recenti splendidi volumi editi da Il Mulino (Paradiso vista inferno e Uomini e animali nel Medioevo), in cui il repertorio iconografico a colori assume una preminente evidenza. Lo ribadisce anche nell’ultimo libro Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, dove la narrazione degli incubi di mille anni fa ¬ carestie, fame, morbi misteriosi, fantasmi, invasioni –, prodromo delle angosce contemporanee, è supportata da un ricco e coloratissimo catalogo di immagini, oltreché da un eccezionale repertorio di fonti letterarie e note bibliografiche.

Chiara Frugoni (Oskar Cecere)

Il primo capitolo del volume è doverosamente dedicato alla più temibile delle paure, quella dell’apocalissi annunciata dal Nuovo Testamento, che tuttavia non arrivò nell’anno Mille dopo Cristo, trascorso senza che nessuno dei cronisti coevi ne facesse cenno. Sembra infatti che gli storici di allora, in genere monaci amanuensi, fossero più interessati alla descrizione delle catastrofi naturali e dei fenomeni astronomici, piuttosto che alla scomparsa imminente del genere umano. Eclissi, stelle cadenti, sabbie rosse del Sahara, fulmini e lampi (assimilati visionariamente a draghi e serpenti, piogge di sangue, mostri marini), venivano letti come presagi di eventi negativi circoscritti: una guerra o la morte di un sovrano. Solo cinque secoli dopo alcuni tragici avvenimenti dell’inizio del millennio furono interpretati retrospettivamente come segnali allusivi alla fine del mondo. Addirittura, la suggestiva espressione “Mille e non più mille”, mai citata nei testi sacri, fu coniata da Carducci in un discorso patriottico degli inizi del 1900.

Nei primi secoli del nuovo millennio, più del terrore della fine del mondo prevaleva l’ansia individuale riguardo alla propria morte improvvisa, temuta perché non avrebbe concesso la possibilità di confessare i peccati ottenendone il perdono, con l’inevitabile successiva condanna all’inferno. A quell’epoca l’aldilà era suddiviso dualisticamente in paradiso e inferno (il primo destinato perlopiù a personaggi abbienti, nobili, illustri, e ai contadini che si salvavano in grazia della loro semplicità e laboriosità; il secondo a cavalieri, artigiani, mercanti, giullari, menzogneri e corrotti nei costumi).  Alla rappresentazione artistica di questi due regni, l’arte medievale dedicò capolavori di convincente finalità educativa. A esemplificazione di ciò, Chiara Frugoni descrive dettagliatamente per una ventina di pagine, con riscontro iconografico, i 124 personaggi che animano l’affresco del Giudizio Universale dell’abbazia francese di Conques, con la rigida e persuasiva separazione tra beati e dannati.

L’invenzione del purgatorio risale al XIII secolo, quando si andava diffondendo uno stile di vita più vivace, un’economia non di pura sussistenza, branche di studio indipendenti dalla teologia: l’esperienza terrena venne allora rivalutata, e non ritenuta passibile solo di premi o condanne definitive. Il purgatorio prolungava il tempo terreno anche nella memoria dei familiari, le cui preghiere potevano intercedere presso Dio per la salvezza del parente defunto. A questo affievolirsi del timore dell’inferno, subentrò la paura della morte come accadimento materiale, che implicava il disfacimento del corpo, la putrefazione della carne, la polverizzazione delle ossa: il gusto del macabro si diffuse negli affreschi e nelle miniature, con evidente scopo intimidatorio da parte della committenza ecclesiastica.

Non era solo la morte a produrre un tormento assillante: “La fame fu un’ossessione che accompagnò in maniera costante la società medievale, per una fragilità strutturale della sua organizzazione, delle tecniche agricole e per l’assenza di intervento dei poteri pubblici”. I raccolti erano scarsi, i terreni improduttivi, gli strumenti di legno inefficaci per dissodare la terra, le abitazioni inadeguate, la mortalità infantile altissima. Le cronache coeve riportano episodi frequenti e raccapriccianti di cannibalismo, di saccheggi, di violenze terribili contro donne e bambini. Il miraggio del cibo portò al diffondersi di leggende su elargizioni miracolose di pani, pesci e frutti, sull’esempio di episodi evangelici.

Anche la paura dello straniero, del diverso, di chi parlava lingue incomprensibili o manifestava costumi e usi insoliti, si propagò con deleterie conseguenze, prendendo di mira musulmani e soprattutto ebrei, ritenuti responsabili della crocefissione di Gesù. Su di loro si coagulò l’odio feroce dei cristiani a partire dalla prima crociata del 1096, quando all’avversione per gli infedeli lontani si affiancò l’intolleranza verso i giudei deicidi viventi in occidente. L’abate Pietro il Venerabile scriveva: “Non so proprio se l’ebreo sia da considerarsi un uomo perché non si piega alla ragione umana né all’autorità divina, ma riconosce solo leggi sue proprie”. Giudicati eretici, superbi, avidi, su di loro fiorirono leggende crudeli e accuse tremende, avallate anche da Padri della Chiesa e Pontefici. Altrettanto ostile era l’atteggiamento medievale nei confronti dei musulmani, supposti alleati di Satana, e derisi per il colore scuro della pelle, mentre il terrore per le invasioni dei mongoli e dei turchi paralizzava popoli e regnanti nell’intera Europa.

Razzismo, fanatismo religioso, intolleranza sopravvivono e imperversano anche nella nostra secolarizzata società contemporanea, a dimostrazione di quanto pregiudizi culturali e rancori sociali siano difficilmente sradicabili dalla psiche e dai comportamenti umani.

Ne sono un evidente esempio le ansie e i timori che coinvolgono da mesi il mondo intero, riguardo all’attuale pandemia del Covid-19. L’autrice dedica alla paura delle malattie gli ultimi due capitoli della sua approfondita ed appassionante ricerca, riservando un’attenzione particolare alla lebbra e alla peste. L’allarme provocato dalle epidemie produceva nell’economia delle nazioni e nel comportamento delle persone effetti simili a quelli cui assistiamo oggi: orrore del contagio, allentamento dei legami di solidarietà familiare, abbandono delle città e delle attività produttive, sepolture anonime e collettive, aumento dei disordini e delle rivolte popolari, diffidenza riguardo alle cure mediche, proliferare di superstizioni e credenze fallaci sull’origine del morbo.

“Gli uomini medievali, così lontani, così vicini”, conclude amaramente Chiara Frugoni, rimarcando: “Nel Medioevo si temeva il ritorno di Cristo che avrebbe distrutto il tempo e il mondo, ora siamo noi che minacciamo la vita del pianeta con la possibilità di un’esplosione nucleare, il devastante cambiamento climatico, la sovrappopolazione e le carestie”.

*

CHIARA FRUGONI, PAURE MEDIEVALI. EPIDEMIE, PRODIGI, FINE DEL TEMPO

IL MULINO, BOLOGNA 2020.

pp. 400, illustrato, rilegato

 

 

 

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