Letteratura
Leo Longanesi, un vecchio anarchico da rileggere oggi
Leopoldo Longanesi (Bagnacavallo 1905- Milano 1957) è stato senza dubbio uno dei più geniali ed originali rappresentanti della storia del giornalismo italiano.
Leo nacque in romagna, in provincia di Ravenna, nel periodo di più alto splendore della borghesia italiana. Conobbe il suo rapido decadimento in debole e fiacca classe che “consuma”,“obbedisce” ed ama “viaggi di formazione all’estero conclusi con la precisa convinzione che soltanto in Italia si cucinano bene gli spaghetti”. Fu borghese di estrazione ma antiborghese di spirito; fu un’anima testardamente anticonformista ed eretica; un anarchico amante dell’ordine morale e della disciplina; un conservatore che adorava innovare e riformare. Fascista quando pochi lo erano ed antifascista quando tutti erano diventati fascisti. Comprese prima di tutti sia il senso rivoluzionario del “movimento” che la degenerazione nel “regime”. Longanesi, ha scritto non a caso Montanelli, “era tutto e il contrario di tutto”.
Fu disegnatore, pittore, incisore, grafico, scrittore, sceneggiatore, umorista, direttore e fondatore dei primi rotocalchi, editore. Si legano al suo nome prodotti editoriali come l’Italiano, il rivoluzionario Omnibus e, nel dopoguerra, Il Borghese. Comprese con largo anticipo l’efficacia comunicativa di cinema e fotografia. Il suo giornalismo era mosso da una continua ricerca nell’innovazione tecnica, grafica e stilistica; da un raffinato gusto satirico e dall’illusoria intenzione di voler “educare” gli italiani sbattendo nero su bianco i loro difetti, i loro luoghi comuni, la vacuità delle loro mode nate da un “progresso non moderno”.
A detta di Montanelli, che lo riconosce come il suo più importante riferimento umano e professionale, Longanesi fu il maestro di un’intera generazione nonostante ne fosse contemporaneo. Si legano al suo nome e lo riconoscono come maestro, rimpianto direttore o indiscusso riferimento professionale, giornalisti e scrittori come Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini, Alberto Savinio, Eugenio Montale, Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati, Mario Soldati, Giovanni Spadolini, Colette Roselli, Irene Brin, Mario Tedeschi, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti e molti altri ancora.
Con i suoi indimenticabili fogli e rotocalchi fornì sempre una sofisticata critica frondista al regime fascista prima e al “regime” della DC poi. Ne criticò le ideologie e la natura, ne derise le intenzioni e gli obbiettivi, ma non sdegnò mai delle collaborazioni con il PNF e con la DC: diresse riviste e fogli sotto il regime (quindi con l’amicizia, la stima e il consenso del Duce) e curò la campagna elettorale della DC nel ’48.
Chi conobbe Longanesi racconta della sua straordinaria capacità di riuscire a cogliere l’essenza di tutto ciò che trattava. Era in grado di tradurre ogni cosa in battuta, motto, aforisma, schizzo. Molti ne hanno esaltato la genialità e l’intuito; altri l’hanno descritto come mosso da una disperata e triste malinconia; secondo altri ancora fu solo un’anima polemica, scorbutica e burbera. Longanesi, a lui forse non piacerebbe essere definito così, fu sopratutto quello che ogni intellettuale dovrebbe essere: un glaciale interprete delle trasformazioni dei costumi degli italiani, tanto del popolo quanto delle classe dirigenti. Viveva in quel mondo ma sembrava non appartenervi. Riusciva a leggerlo in modo distaccato e pungete come solo le grandi menti sanno fare. Vide nel futuro con una freddezza che quasi spaventa.
Già negli anni ’50 interpretò la novella democrazia italiana come una dittatura del conformismo cattolico e del consumismo capitalista. Interpretazione che fu lungimirante senza doversi piegare all’utilizzo di idealismi o marxismi tanto in voga nella cultura italiana del tempo (tristemente in voga ancora oggi!). Per Longanesi il cattolicesimo politico e gli idoli del consumismo formavano un humus che cancellava le tanto amate virtù ottocentesche e snaturava l’identità del popolo italiano, un’identità essenzialmente contadina, strapaesana: “la miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. […] Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato […] La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima”.
Nel 1953 descriveva la borghesia italiana, la classe che dovrebbe dirigere il paese, come caratterizzata dalla totale mancanza di “cultura”, di interesse per ciò che è “alto” e “passato”. Sottolineava come questa classe avesse perso ogni pudore e decoro per “adeguarsi alle esigenze di un progresso provvisorio, che chiede ogni giorno riforme e che crolla sotto il peso di quelle riforme che non riformano il fradicio costume del paese”. Una classe caratterizzata da un “progressismo” delirante, che vuol cambiare tanto per cambiare. Ma per andare dove? si chiedeva Leo: per andare verso il conformismo, il bigottismo e un capitalistico piattume culturale. Una borghesia poco italiana e tanto, troppo americana. Preda della mania del consumo ed impegnata solo a contare gli zero alla fine dei propri conti correnti. Insomma, “una questione di zeri tra gente che vale zero”. Una classe nei fatti apolitica, senza passione per la polis, senza fantasia artistica e sopratutto senza “ordine morale”; non in grado di caricarsi sulle spalle il futuro di un paese che contribuiva a degenerare, ma capace solo a barcamenarsi nel presente obbedendo agli “amici”. Gli amici, si gli amici rimanevano, ed era l’unica componente italiana rimasta alla borghesia: “è l’amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l’unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l’accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza; è la ‘pastetta’, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato”.
Longanesi non ci lascia una visione del mondo organica. Nemmeno un punto di vista intellettualmente elaborato come i grandi studiosi sanno fare. A lui dobbiamo solo lampi, intuizioni, immagini, battute, brevi saggi da 15 minuti di lettura. Nonostante quest’apparente mancanza di profondità, il piccolo (di statura) Leo, ci aveva già messo in guardia sui danni che avrebbe portato una classe borghese non in grado di guidare il paese; sui pericoli di una classe dirigente interessata solo al denaro e priva di ogni riferimento culturale e passione per la riflessione. Ci aveva già detto che senza “ordine morale” non si governa un paese; che l’unico motore economico dell’Italia sono le amicizie e le pacche sulle spalle; che la forza del nostro paese è nascosta nelle sue tradizioni, nelle sue usanze, nei suoi ricordi. Si era raccomandato di non seguire le riforme solo perche venivano chiamate riforme.
Sopratutto era stato chiaro su un punto: per cambiare il paese era necessario riformare i suoi costumi, i suoi modi di fare. Senza questa nuova base ogni tentativo di cambiamento sarebbe risultato sterile. Il problema erano quelle pratiche e comportamenti calcificati nella storia italiana; storia di regionalismi e particolarismi. Quello che Prezzolini definiva “il codice della vita italiana”. Un sistema di regole alternativo alla legge scritta ma che, nei fatti, era il vero codice di vita di chi abitava lo stivale.
Questi codici di vita erano (sono ancora) caratterizzati dalla totale mancanza di un punto di vista “comune”. Gli italiani “sono gente che tiene famiglia”, nulla gli frega della cosa pubblica. D’altrone l’Unità non è stata affatto voluta dai popoli che abitavano la penisola. Fu, invece, “un’invenzione della borghesia”.
La mancanza di un punto di vista comune era dovuta, secondo Leo, alla mancanza di cultura politica. Qui le opinioni di Longanesi si confondono con quelle di Prezzolini. Cosa pensavano i due quando parlavano di cultura politica? Non certo a quella che ci si illude di formare con i programmi televisivi. Non certo a quella che si crede di diffondare con i festival della filosofia o con i consigli di lettura. Nemmeno a quella che si forma sui libri e sullo studio che, per definizone, è roba per pochi.
La cultura politica è soprattutto virtù civica, responsabilità di appartenere ad una collettività. Le virtù civiche nascono dopo secoli di lotte e conflitti e si manifestano, scriveva Prezzolini, nella “devozione alla patria, nel senso del dovere e nel rispetto umano”. Molti studi oggi confermano le tesi di Longanesi e Prezzolini. Il più famoso è certamente Making Democracy Work:
Civic Traditions in Modern Italy di Robert Putnam. Anche qui Longanesi (e con lui Prezzolini) è stato terribilmente attuale: senza virtù civica non può esistere nessun popolo, nessuno stato, nessuna patria. Come mostrano le ricerche di tanti economisti, senza virtù civiche non può esistere nemmeno efficienza economica.
Longanesi, il triste e maliconico Leo, ha per una vita (se pur breve) guardato in faccia gli italiani chiedendosi che cosa siete, che cosa siamo?:
“L’italiano è un personaggio che abbiamo costruito a poco a poco su vecchi motivi letterari, un tipo simpatico, che amiamo, pur giudicandolo severamente; buon padre, lavoratore, gran cuore, appassionato, modesto ecc. Ma lo conosciamo ben poco; è ateo, pensa soltanto alle donne e ai quattrini, sogna di non lavorare, disprezza qualunque ordine sociale, non ama la natura; sa difendersi soltanto dallo stato, dal dolore, dalla fame. Siamo animali feroci e casalinghi”.
La fenomenologia dei costumi del popolo italiano che ci ha lasciato Longanesi è di sconcertante attualità. Come scriveva Flaiano non ci resta che consolarci “pensando che per molti, l’italiana, non è una nazionalità ma una professione”.
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