Letteratura
Le storie dimenticate nell’Italia di Ivan Carozzi
Quando qualcuno scrive un libro che avrei voluto scrivere io, sono sempre invaso da una curiosità piuttosto pressante, alimentata sia dalla voglia di leggere qualcosa che sento – in un modo o in un altro – appartenermi, sia dal sottile, invidioso, meschino e inconfessabile desiderio che la cosa non sia proprio all’altezza delle aspettative.
Con i Teneri Violenti di Ivan Carozzi (Einaudi, Stile Libero Big, 152 pp., 17€) mi è andata decisamente male, non solo perché la curiosità di storie di cronaca del nostro recente passato che costituisce l’ossatura del libro mi appartiene moltissimo, ma anche perché si tratta di un breve romanzo molto efficace e riuscito, nel quale si entra magari un po’ casualmente per rimanerne piacevolmente prigionieri.
Un libro che parla di Milano, che parla di ritagli di vecchi giornali e di notizie dimenticate, orribili e tenere, incredibili e commoventi, comiche e pazzesche. Un libro che parla di precariato senza la lamentosa prosopopea di altri tentativi, ma che riesce a renderne l’inquietante ineluttabilità in alcuni settori del lavoro creativo. Un libro che parla dell’amore e del disimpegno ai tempi di WhatsApp.
Un libro davvero intenso, che meritava un approfondimento. Forse una chiacchierata con Ivan (che aveva già pubblicato Figli delle stelle per Baldini&Castoldi e che è caporedattore di Linus) sarebbe stata bene in qualche bar della bocciofila, ma ci siamo dovuti accontentare – complice la distanza – di un fitto giro di mail, promettendoci l’aperitivo appena potremo. Ecco quanto ci siamo detti.
Partiamo dalla genesi di questo libro, quanto c’è di autobiografico?
È in parte autobiografico. Del resto il mio nome compare nel libro, ma una sola volta. Non posso dire fino in fondo: “quello sono io”.
Il libro nasce da un lavoro effettivamente svolto per la tv. Per parecchi mesi mi sono ritrovato a cercare notizie all’interno di alcuni archivi online. Tutte queste notizie, che avevo il compito di selezionare, dovevano essere comprese nella forchetta 1970-1985 e così è anche nel libro.
Le notizie sono state da te raccolte nel tempo dentro il tumblr intitolato Theitaliangame…
Sì, al di là del lavoro, ho iniziato a ritagliare e accumulare, febbrilmente e con gioia, fino a quando non ho pensato di collocare dentro un tumblr questa eccedenza di foto e brandelli di carta stampata.
Theitaliangame ha una grafica, lo ammetto, terribile, ma ha il pregio di essere un pozzo quasi senza fondo e di avere su chi lo scorre, così mi dicono, un effetto ipnotico. Non ho mai voluto ricreare una sorta di salottino vintage, semmai ho cercato di muovere un pendolo di fronte agli occhi di chi guarda, come quei mentalisti che si vedevano nella tv di stato. Per mesi e mesi non ho fatto che caricare post – 1853 in tutto – a volte con una didascalia, che ho sempre voluto molto asciutta o poetica.
Lasciando al lettore la gioia di farsi ipnotizzare “fino a quando lo dirò io” (come diceva uno che fingeva di intendersene), ci suggerisci tre notizie che hai raccolto nel tumblr e che ami molto, ma che non sono finite nel libro?
C’è una foto segnaletica…
Purtroppo ho perso tutti i riferimenti e non sono più riuscito a risalire alla storia della persona fotografata. Però mi sembra evidente che si tratti di un uomo ossessionato da Adolf Hitler. Questa foto mi ha fatto pensare allo scrittore Dante Virgili e poi a quel sottobosco della destra italiana antimoderna, patologica ed estrema, viva a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta, all’epoca in cui molti testimoniavano clandestinamente, e quindi ossessivamente e misticamente, la propria nostalgia per il fascismo.
È un mondo di individui isolati e perdenti, personaggi letterari, a mio parere precursori di fenomeni come il khomenismo e i terroristi dell’IS.
Un’altra storia è quella di un giovane capellone torinese, che aveva avuto qualche esperienza come modello in pubblicità ed era finito in carcere per una piccola storia di droga all’inizio degli anni 70. Bene, in modo del tutto imprevisto, un giorno mi sono ritrovato di fronte a questo signore. E dove? In uno studio televisivo. Era diventato un uomo pio, un santo. Vive in una grotta in India e a malapena si nutre.
La terza storia è altrettanto incredibile. Trovo la foto di un ragazzino che parla a un congresso dei Radicali.
Avrà dodici, tredici anni. Ha un viso dolce, sveglio e intelligente. Non potrebbe essere altrimenti: è uno dei più giovani italiani iscritti a un partito politico. E nel suo caso non è un partito qualunque: è il Partito Radicale.
Un piccolo partito diverso da tutti gli altri partiti. Bene, digito su Google il nome di questo bambino e vedo una sua foto da adulto. Porta una barba sporca e lunghissima. Un serpente boa gli striscia da una spalla all’altra. Voglio saperne di più. Grazie a Google scopro che questo ex bambino radicale è diventato un mercenario nella guerra jugoslava, macchiandosi di crimini orribili.
Un’ultima storia: quella di un bambino che piange per aver perso il cane. Un giornale, nel 1974, gli dedica una foto con una didascalia dove figura il virgolettato: “Avevo un amico e l’ho perso”. È un fatto di nessuna importanza, lo so, ma io vorrei ricreare con le parole lo sferico tremolio, il calore e la salinità di quella antichissima lacrima.
Ho trovato la descrizione che fai Milano molto efficace. Pur non vivendoci, quando ci vengo ho la sensazione che possa essere un po’ come dici tu. Esisterà mai un’altra Milano possibile per un precario della cultura?
Milano offre moltissimo. È in relazione con altre città del mondo e altre scene culturali. Qui arrivano un sacco di cose, c’è una scena musicale molto attiva, ci sono festival e piccolissimi festival e realtà intelligentissime come Mare Culturale Urbano.
C’è un auditorium dove un gesuita ospita una programmazione di musica elettronica. C’è stata una fioritura che è stato effetto del risveglio civile che ha preceduto l’elezione di Pisapia.
Credo che una certa sensibilità culturale, sociale, sia stata costruita e sia destinata a durare, al di là dei percorsi del centro-sinistra al governo.
La questione del precariato mi sembra affrontata in modo molto interessante, perché da un lato mi sembra che abbia quasi un’aura di ineluttabilità, dall’altro si insinua in modo silenzioso nella narrazione dando un senso di scomodità che ben “dialoga” invece con le storie che emergono dagli archivi. Che ne pensi?
Si, dici bene. In effetti c’è questo aspetto di resa, d’ineluttabilità disarmata, un resistere non serve a niente. È proprio così, è esattamente così. Naturalmente, la precarietà non è solo la condizione economica e strutturale in cui si trova la tua vita, ma una profonda condizione d’instabilità, a ogni livello, che si complica nella maturità e col passare del tempo. È un tema di cui si è parlato molto nel dibattito pubblico, ed è stato anche molto divulgato grazie alla penetrazione sulla stampa di pensatori come Bauman.
Eppure, paradossalmente, la questione mi è sempre sembrata rimossa nel discorso privato, quello che si svolge tra gli individui. Forse l’incertezza lavorativa cronica, specie in una città come Milano, viene vissuta come una vergogna o come la spia di un insuccesso o di una contraddizione personale. Chi lavora nella comunicazione, nell’industria culturale ed editoriale, riceve stipendi molto bassi e spesso sopravvive grazie al welfare familiare.
Pure io sono stato aiutato. Ho sempre avuto la sensazione che a Milano non ci si possa mostrare claudicanti o infelici. La domanda che tutti fanno a tutti è: di cosa ti occupi? E qualcosa bisogna pur rispondere, per non creare imbarazzi o un calo nella conversazione. L’obbligo della performance, insomma, è il prezzo che si chiede al tuo bisogno umano di mostrarti per ciò che sei. Come tutto questo si accordi con le storie che ho raccontato nel libro, non lo so, ma credo funzioni.
Lavoro culturale a Milano. Il riferimento che viene subito alla mente è Bianciardi. Qual è il tuo rapporto con il suo lavoro?
La vita agra è un libro che ho letto molti anni fa e che non ho riletto durante la stesura del libro. Forse è stato un errore. In ogni caso la voce di Luciano, il protagonista del libro di Bianciardi, è stata sempre presente nelle mie orecchie, mi ha persino un po’ perseguitato. Mi ha stalkerato, come direbbe Nicole Minetti. Luciano era sempre più vitale, più affascinante ed ironico del mio personaggio, anche nella sconfitta e nell’amarezza. Ma pazienza, la mia voce non poteva essere che quella.
Il protagonista del romanzo sembra proteggersi dalla vita dello studio televisivo immergendosi nelle ricerche. E’ così terribile il lavoro per la tv?
La tv per me è stata la fonte di un grande arricchimento, davvero di un acqua a suo modo miracolosa, è stata uno stipendio a fine mese, cosa bellissima e santa, ed è stata anche l’occasione, spesso, di una lezione di umiltà, per molti versi. Ma la vera e quasi esaustiva risposta alla tua domanda richiederebbe lo spazio di un altro libro o una chiacchiera fino all’alba.
Per lavoro ho letto (sempre di fretta) decine di biografie e decine d’interviste a personaggi di cui non mi sarei mai occupato – preferendogli magari un libro di Sebald, mangiare una pizza o fare un giro in bicicletta a Città Studi – e così ho scoperto che anche le celebrities più effimere offrono insospettabili nuances e aspetti umani o biografici sorprendenti.
Insomma, tanta vita, calore e tanta letteratura potenziale. Il che dovrebbe essere scontato, ma per me evidentemente non lo era. Al tempo stesso la tv è un lavoro spesso fisicamente sfiancante e intellettualmente scivoloso, ingannevole. Pur di giustificare a te stesso quello che fai, i banali prodotti per i quali lavori, c’è il rischio che cominci a pensare che ci sia un valore anche nella tv più deteriore e pigra, cominci a blaterare di cultura alta e cultura bassa, confondi la cultura pop con la mediocrità commerciale e ti convinci che la cultura pop debba essere difesa dall’accademia, quando invece è ovunque e trionfante. Insomma, sei pronto a costruire un altare per qualsiasi Alessia Marcuzzi e a dare del cretino ad Adorno su Facebook, con una un’approssimazione disarmante. È un meccanismo che nella mia timeline ho visto all’opera decine di volte.
A proposito di social network, nel libro è molto presente, come lo è nelle vite di moltissimi, la comunicazione attraverso WhatsApp. Trovo che sia sempre difficile – a volte anche bruttino – riportare in un romanzo le conversazioni in chat o nei social networks, ma mi è piaciuto molto come sei riuscito a dare fluidità a quei frangenti. Che rapporto hai con i social?
Ho un rapporto piacevole e sereno con Instagram. Ignoro sostanzialmente Twitter. Uso il giusto WhatsApp. Per Facebook ho una certa dipendenza e di conseguenza lo detesto. È un posto imbarazzante, dove raramente trovo qualcosa di bello. Ma credo che stia andando incontro a una fase di stanchezza, a un logoramento delle corde vocali e a un’autoconsapevolezza collettiva del degrado a cui abbiamo dato forma. Anch’io mi sento un idiota. Lo detesto perché ne sono prigioniero. Sono costretto a usarlo per far circolare quello che scrivo e se voglio che quello che scrivo circoli devo nutrire l’algoritmo. C’è un’immagine che ho in mente da giorni: quella di Pete Townshend che distrugge la sua chitarra e quindi mi sto chiedendo come si potrebbe spaccare un social network contro un amplificatore o produrre un altro gesto simbolico di rifiuto, divorzio e rigenerazione.
A me sembra tu sia attivo in un modo molto interessante su Facebook…
Facebook mi serve per informarmi, ma il mio cervello soffre, temo proprio neurologicamente, perché è un cervello ancora gutenberghiano, abituato alla stampa. Il mio cervello prova godimento e distensione di fronte alle notizie messe in ordine sulla carta: dalla politica alla cronaca, alla cultura, allo sport. Il mio cervello soffre nel momento in cui scorre la timeline, non riesce a sintetizzare una proposta così eterogenea e illimitata ed è costretto a inseguire decine di link e collegamenti che creano una specie di debito costante della conoscenza.
Parliamo della tua attività a Linus. Come sta andando questa avventura in una rivista storica?
Mi dà grandi soddisfazioni. È un posto piccolo, ma molto libero e privilegiato. Non abbiamo bisogno di ‘stare sul pezzo’, non dipendiamo dall’urgenza di arrivare prima di tutti a pubblicare il commento colto su Beyoncè o Stranger Things. Pensare un nuovo numero di Linus dovrebbe essere davvero un atto creativo, e quindi a occhi chiusi, o con i piedi e il pianoforte sulla sabbia, come Brian Wilson quando pensa Pet sounds.
A cos’altro stai lavorando ora?
A nulla concretamente, ma ho delle idee che mi ronzano in testa. Ho scoperto la storia di un fatto socio-politico-teologico, avvenuto in Italia cinquant’anni fa, pochissimo raccontato, ma semplicemente fantastico. Mi piacerebbe scriverne.
Mi piacerebbe poi intervistare Gillo Dorfles e fargli una sola domanda: chi è l’individuo anagraficamente più vecchio che lei ha conosciuto? Gillo Dorfles ha 106 anni, quasi 107. È nato nel 1910. Ciò significa che potrebbe avere ascoltato la voce e il pensiero di un uomo nato perfino nel 1830. E ciò significa che, attraverso la memoria e il racconto di un mio contemporaneo, l’immagine di un essere umano nato nel 1830 può ancora attraversare il tempo e raggiungere tutti noi nel 2016: non grazie a una registrazione, ma al supporto più instabile, filamentoso e misterioso, cioè la memoria umana, la memoria fragilissima di un vecchio. Per me questa possibilità è una forma di magia e qualcosa che mi colpisce profondamente.
Infine mi piacerebbe scrivere una lettera alla parte di me che è rimasta in Olanda, dove sono stato in vacanza quest’estate.
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