Letteratura
Le stagioni di Yehoshua
“La moglie di Molcho morì alle quattro del mattino, e con tutto se stesso Molcho si sforzò di individuare il momento preciso di quella morte, così da inciderlo dentro di sé, perché lui voleva ricordare”.
È la prima frase di Molcho, titolo ebraico del romanzo di Abraham Yehoshua, che Einaudi ha proposto in una raffinata traduzione e con un diverso titolo italiano, Cinque stagioni. Tante sono infatti le scansioni in cui si suddivide materialmente il volume, da un autunno all’autunno successivo del primo anno di vedovanza del protagonista. Molcho è un mite impiegato statale di Haifa, ebreo osservante anche se non ortodosso, dalla bella faccia orientaleggiante e dall’incipiente pinguedine, che a 52 anni si ritrova stordito e scorticato dopo la morte della moglie, avvenuta in seguito a un tumore al seno che l’ha tormentata per sette anni. Nel corso della malattia, Molcho segue la sua compagna – un’intellettuale molto rigida e critica, di origini tedesche, che è stata la sua prima e unica donna – con una devozione e una competenza ossessiva, pignola, al punto che qualcuno gli rimprovererà, in seguito, questa sua morbosa fedeltà al male come un lento, inesorabile uxoricidio.
Molcho vive quindi con disorientamento, ma anche con sensi di colpa, timori assillanti del giudizio degli altri e blocchi emotivi, il peccato imperdonabile di essere sopravvissuto a lei. Desideroso di recuperare sentimenti e rapporti cancellati nel lungo periodo della sua dedizione al progredire del cancro, si aggrappa a ciò che gli resta: tre figli quasi adulti, verso cui sente crescere un’incomunicabilità fatta di delusioni reciproche, di vicendevoli intrusioni e sospettosi spionaggi, una madre lontana ma incombente, la suocera ottantaduenne che, in virtù della parentela strettissima con la moglie morta – considera più vicina di chiunque altro. I riti che Molcho mette in atto per riappropriarsi di se stesso e del mondo sono gesti minimi e banali: la riscoperta della natura, del mare e del deserto, il perdersi tra la folla, l’ascolto catartico della musica, l’osservazione maniacale del proprio sesso, mortificato dalla perdurante mancanza di desiderio. Ma ciò che più lo ossessiona nel suo lento ritorno alla vita sono i rapporti con le altre donne, incoraggiati e favoriti dagli interventi impiccioni di parenti e amici. Il fantasma della moglie lo perseguita, si insinua in impietosi confronti fisici o in illuminazioni fulminee: “le donne gli parevano tutte molli e stanche e piene di difetti, ma a volte il suo sguardo catturava anche particolari anatomici così belli da fargli venire le lacrime agli occhi… Pensava: – se solo fosse possibile prendere pezzi separati, di qui una gamba e di là i capelli, una spalla o un sorriso, e costruire, come in un collage, una donna da poter tentare di amare davvero -”.
Aldilà del sogno, Molcho si scontra con una realtà deludente. Tenta un approccio con una vedova, funzionaria di grado superiore al suo, e vive con lei un viaggio a Berlino che potremmo definire fantozziano, da quanto i suoi impacci e le sue esitanti premure sortiscono a effetti di comicità grottesca. In seguito, un amico ritrovato gli propone di sposare la moglie che lui intende ripudiare in quanto sterile, e Molcho se la prende in casa, questa sua antica fiamma liceale incanutita e rinsecchita, intenerendosi al pensiero di una confidenza recuperata (il sonno di lei nell’altra stanza, due spazzolini nello stesso bicchiere), ma ancora una volta il tentativo si blocca per la timidezza di entrambi. Una nuova ipotesi di convivenza accarezza l’inconscio di Molcho quando deve accompagnare in Europa, su incarico della suocera, una giovane profuga russa con cui si intende a gesti: si lascia commuovere da questo donnino goffo e animalesco, e si strugge di malinconia quando lei viene riaccolta in patria. Ma è solo una bambina undicenne conosciuta in un villaggio di Galilea, durante un’ispezione di lavoro, che davvero arriva a turbarlo e a tentarlo; una bambina strabica e esile “che lo conduceva con una durezza fiera e gentile al tempo stesso, e si chiese perché ne era così affascinato: – È come se mi fosse entrata nel sangue, si disse, ma è una pazzia -; e d’un tratto lo invase un pensiero selvaggio anteriore al sesso: mangiarla, masticarne la carne; e i denti quasi gli batterono e quel pensiero lo fece un po’ ridere ma anche lo spaventò e lo depresse”. Rappresenta forse il simbolo del nuovo Israele che sta per nascere, inquieto e multirazziale, questa magra bambina di origine indiana, che vive là dove la convivenza tra arabi ed ebrei si fa più inquieta, e le tracce della guerra col Libano incombono minacciose. Le donne sono qui testimonianza di un ambiente e di una cultura scissa tra oriente e occidente, tra fanatismo religioso e miscredenza, una zona franca per la narrativa moderna, che Yehoshua esplora con risultati di notevole interesse.
La storia di Molcho, e del suo primo anno di vedovanza passato senza riuscire a sfruttare la nuova libertà, senza nemmeno poter baciare una donna, si chiude con il suo ritorno a Haifa, dove trova la suocera morente, e decide di non assistere al trapasso di lei, rifiutando un coinvolgimento sempre più penoso, scegliendo invece di andare incontro alla vita, a nuove emozioni, magari a un amore più grande.
ABRAHAM B. YEHOSHUA, CINQUE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2007, p. 394
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