Letteratura
“Le schegge” di Bret E. Ellis – Appunti di lettura
Dopo un prologo che sembra una rêverie inizia il racconto di “Le Schegge”. Si tratta di un college novel sulla falsariga del “Giovane Holden” (capostipite del genere) o del film recentissimo “Holdovers”: il rito di passaggio dell’ingresso nel mondo degli adulti. Nel frattempo un assassino seriale detto il “Pescatore a strascico” si aggira nei paraggi a far strazio di giovani vittime. Anno di ambientazione, non potete sbagliarvi, il 1981, indicato da una fitta pista sonora di canzoni di stagione; scenario di riferimento Los Angeles, e non potete dimenticarlo neanche un istante perché il conglomerato urbano è descritto con realismo meramente elencatorio, ipnotico, in ogni suo singolo snodo viario e semaforo incessantemente, non appena i protagonisti prendono la loro lussuosa autovettura…
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Autofiction si dice oggi. È Bret Easton Ellis (BEE) che narra di se stesso, che parla dei propri romanzi. Insomma il “lupus in fabula” è proprio lui. Ed è come se Manzoni o Svevo o Moravia mentre scrivono la loro ultima opera richiamassero ai lettori la loro precedente produzione: gli ‘Inni sacri”, “Senilità” , “Gli indifferenti”.
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Il verbo portante è “ricordo”. Appare 133 volte, ogni 5,6 pagine. Talora anche 5 volte sulla stessa pagina come nel capitolo 1.
I personaggi sono collocati in una toponomastica precisa con sfumature favolistiche trattandosi di Los Angeles e Hollywood. E si sa sempre cosa stanno ascoltando alla radio o cosa mettono sul giradischi. Qui dovrebbe agire invece la succubanza psicologica alla potenza americana anche a causa della dipendenza spettrita dall’immaginario hollywoodiano cui soggiace l’italiano medio.
A proposito degli “oggetti poetici” evocati da alcuni critici nostrani (piscine, drink, vestiti, canzoni, auto, ecc) che dovrebbero propiziare la ricostruzione dell’ aura attorno alla narrazione, occorre ricordare questo passo di Arbasino sui film di Antonioni:
…per caso la interminabile inquadratura su un oggetto non sia dopotutto un perfetto equivalente delle interminabili «descrizioni» dei narratori dell’Ottocento, e che regolarmente più sono lunghe e più «si saltano» quanto più modesto è il romanzo.
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I personaggi dicono sempre Wow e Ehi o Gesù! o Uhm, come nei telefilm americani. Interiezioni che non so se sono nell’originale o sono licenze del traduttore (Giuseppe Culicchia). <<Tutto era fico, tutto era ganzo, tutto era un po’ wow>>, si legge più avanti. Ellis talvolta sembra con le sue mossette verbali Baricco quando imita Ellis.
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Le mode, i vestiti le scarpe, i marchi, i tic e i tabù e c’era questo e c’era quest’altro… Un regesto di chincaglieria d’epoca, un “the way we were” da rivista glamour o da diario da adolescente nel voler ricostruire con minuti dettagli l’air du temps… Arbasino faceva qualcosa del genere per il decennio dei Sessanta (quello in cui il futuro aveva ancora un avvenire) ma azionando monsoni di volumi e cascate di osservazioni critiche tra Parigi, Londra e altre capitali europee. Oppure ancor meglio faceva il delizioso e struggente Seminario sulla gioventù di Busi, segno che c’è modo e modo di essere letterati e gay che scambiarsi le emozioni da dolcestilnovo generazionale o le fellationes nelle ultime fila dei cinema da 1500 posti di L.A. Mi sembra che Ellis abbia goduto abbastanza per comprendere mimeticamente il proprio tempo ma abbia trascurato di porlo en artiste davanti a sé per meglio rappresentarlo.
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Chi narra è un certo Bret si diceva che ha scritto American psycho ma è ovviamente un io autofinzionale che si stacca dalla pelle di Ellis anagrafico. Dicono tutti così, ma poi l’autobiografismo è di tipo ombelicale, ossessivo, assediante, adolescenziale in fondo.
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Brano:
Il sole era appena tramontato e Ryan era in controluce, un’ombra vaga davanti alla piscina azzurro brillante e al cielo rosa in movimento, intento a chiacchierare con Thom Wright e Jeff Taylor, tutti e tre in camicia Polo e bermuda color pastello …
E questi sarebbero i famosi “oggetti poetici” di cui parlano quei critici preclari nostrani? Suvvia. Un brano tardo liceale, da Tondelli minore.
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In qualsiasi segmento narrativo è detto ciò che i personaggi indossano, quale cibo o bevanda (la birra messicana Corona è citata 32 volte, poi capisci perché è venduta anche da noi a prezzi superiori alla media: ha il marchio californiano addosso), quale musica stanno ascoltando. I dialoghi, del tutto ordinari, statici, non portano l’azione, non dipingono i personaggi, né integrano il racconto ma hanno la funzione designativa di suggerire semplicemente un’atmosfera. Sono una pennellata in più nella funzione ut pictura poesis insieme alle puntigliose descrizioni di abiti e arredi, focus precipuo del romanzo.
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Robert Mallory
Preannunciato dall’inizio del racconto. C’è da dire che la narrazione non ha un’azione centrale ma una suite di scene, salvo appunto l’evocazione di questo Mallory indicata all’inizio come miccia con capacità d’innesco di catastrofi romanzesche.
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Valium e Quaalude trionfano. Per ogni male c’è una pillolina in questo mondo.
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In genere le descrizioni sono staccate dalla narrazione, come alcune che ci danno momenti di vita del College. Con un che di manieristico e di fredda ricognizione, benché BEE si sforzi dall’esterno di darci il pathos di una biografia in crescita o in malformazione, nel mezzo del formarsi delle leadership e dei carismi delle personalità eminenti del College. Cose che chiunque abbia respirato vita dei collegi cattolici o dei movimenti studenteschi conosce nell’intimo e si aspetta, venendone accontentato con una prosa accondiscendente e in fondo piuttosto freddina e sdata. Anche se BEE la infiochetta con una coloritura di piccoli dettagli:
Ma a me piaceva raccontare storie e abbellire un episodio altrimenti banale che magari conteneva due o tre elementi tali da renderlo abbastanza interessante per essere riferito, ma non piú di tanto, e cosí aggiungevo uno o due dettagli capaci di rendere la storia effettivamente interessante per l’ascoltatore dandole un che di umoristico o sorprendente o scioccante, e mi veniva naturale. Non si trattava esattamente di bugie – era solo che preferivo la versione esagerata
scrive ruffiano. Anche perché al di là dei gusti personali, del vestiario minuziosamente evidenziato e della colonna sonora che in qualsiasi momento viene segnalata, non ci sono inscenati conflitti di idee, visioni del mondo, modelli di vita, passioni letterarie (salvo la Didion), non so, il naturale gliommero di ogni liceale italiano dilaniato tra destra e sinistra. Qui oltre il sesso e le droghe e i valium e i quaalude… nada de nada.
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Le personalità del mondo anglosassone soprattutto rockers, specie se protestanti, esibiscono modalità e prassi di autodemolizione terrificanti e consequenziali a noi mediterranei ancora sconosciuti. C’è del metodo nella loro follia anche qui ovviamente.
Da noi invece, sarà il nostro cattolicesimo di base, la nostra tradizione controriformistica di autoperdonarci e autoassolverci o la nostra flessibilità morale di fondo (si non caste tamen caute ammonivano i vecchi confessori), sarà anche la nostra tradizione melodrammatica e la nostra incapacità di sapere “abitare il tragico” (a noi, ricordo, è mancato il teatro tragico, ci provò Alfieri con risultati modesti), sarà tutto ciò o qualcos’altro, ma nel nostro stile di vita anche il brago morale può essere una confortevole uscita di sicurezza oltre che un’auretta leggera in cui “querelarsi ogni altro male, ogni altra vita”.
Nel mondo protestante invece, come qui, è eccesso e ostinazione, e anche procedurale autodistruzione. Qui ampie testimonianze in tal senso.
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Nel suo profumo c’era anche un che di affumicato, di cinereo, un falò acceso su una spiaggia deserta, l’aria salmastra che si mischiava alle fiamme evaporanti.
No dai… È un d’Annunzio andato a male qui.
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La narrazione nel romanzo è condotta come le shell di certi programmi operativi WYSIWYG (what you see is what you get), tutto è esposto freddamente, non c’è da parte dell’io narrante particolare fremito interiore come nell’Holden Caufield di Salinger alle prese col suo seminario sulla gioventù. Manca la transustanziazione, il passaggio della sostanza del pane e del vino della materia narrata in quella del corpo e del sangue di Cristo della Letteratura in virtù delle parole della consacrazione pronunciate dal sacerdote-autore durante la messa- romanzo. Si potrebbe eccepire che l’autore si limita a mostrare un certo mondo yankee semplicemente nominandolo o rappresentandolo dicendo id est in maniera neutrale e oggettiva, freddamente. Il guaio è che anche noi restiamo freddi. E chiudiamo il libro con un semplice mah! Libro destinato al ceto medio irriflessivo che amerà rispecchiarsi in questo testo senza giudicarsi.
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La bellezza di Robert è di tipo californiana da Big Jim e il romanzo è indeciso tra un musical alla Grease (se ne avesse il ritmo e la freschezza), o forse, più in sintonia coi dintorni paesaggistici continuamente indicati, con le atmosfere fatue e sognanti di un La la land.
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Non riesco a spiegarmi questa fascinazione di intellettuali di sinistra per questa scrittura yankee. Me la spiego perché forse vi vedono la dissipazione del sistema capitalistico. Ma si sbagliano. Mai vista tanta consentaneità qui seppur sotto traccia.
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Bret parlando con Terry al ristorante Trumps del suo romanzo Meno di zero che sta scrivendo dice:
ma non c’era una storia, c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare.[…] a me non importava che cosa facessero i personaggi. Esistevano, e volevo solo trasmettere uno stato d’animo, immergere il lettore in un’atmosfera particolare creata da dettagli attentamente selezionati.
Avevo pensato qualcosa del genere proprio per questo libro. Ne trovo conferma, dunque. Ovvero c’è la storia ma è raccontata attraverso una suite di scene, obbeddendo al principio cardine presso molte scuole di creative writing, il rigido show, don’t tell. Lunghe scene perciò col loro fitto reticolato di dialoghi, aprono spazi di tipo teatrale nel corso della narrazione che subisce pertanto un colloso rallentamento se non proprio venirne bloccata come la scena in cui si viene a sapere che Robert Mallory è stato ricoverato in un istituto di cura prima di essere ammesso al College. La scena è particolarmente effettata nei dialoghi al fine di fare esplodere il personaggio di Mallory, già peraltro preparato nel corso della narrazione, ma con effettacci da roman-feuilleton (preannunciato ripetutamente, fin dal prologo, con effetto alone il suo ingresso in scena).
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Mi rigiro in mente la frase di uno che aveva detto parole definitive sui totalitarismi
le convinzioni politiche o religiose di uno scrittore non sono bizzarre escrescenze, ma idee che lasciano il segno anche nel più piccolo dettaglio della sua opera.
Annotava ciò Orwell in un saggio su Yates in un numero della rivista “Horizon” del maggio 1943. E qui i dettagli sono eloquenti. Nessuna idea politica, morale, di semplice autoriflessione, solo un’estasi perenne di oggetti più o meno poetici, alla lunga invasivi e ottundenti come nenie di correlati oggettivi tanto attesi quanto prevedibili e sdati, che, solo più o meno una divina indifferenza tende a portare in primo piano e a giustificare con la propria estetica conseguente. E a tutti questi dettagli verrebbe voglia di dire: BEE spostati e facci leggere il romanzo.
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Lo sappiamo anche noi che abbiamo mangiato tutte le foglie. Certamente lo spettro delle mere sensibilità estetiche è vastissimo, ma poi in noi tornano i fondamentali: le idee, eh sì le care e vecchie idee: religiose, politiche, anche estetiche (ma non epidermiche legate a gusti, drink, vestiti, auto, canzoni di stagione che qui proliferano e hanno il compito di coprirne il vuoto) non idee dunque di mero approccio sensoriale, ma di percezione generale del mondo. Come si fa a eluderle tutte? Qui la dimensione estetica dell’edonismo reaganiano sembra avvolgere tutto, ma è consentanea non parodica. Mi chiedo inoltre a latere della lettura se – tra la retorica dell’impegno che ci ha assediati e intrisi fin nelle nostre più piccole molecole mentali quando eravamo impegnati, ampiamente resettate in séguito e in parte rinnegate, non ci sia anche per noi che pendiamo tuttora per sommo e disperato realismo al TINA (no, non ci sono alternative a questo mondo) – non ci resti al dunque come scenario ultimo, per scorno e contrappasso, che abboccare all’ultima cucchiaiata di edonismo reaganiano di BEE? E pure farcelo piacere come in fondo piace a lui? No, non ce la facciamo.
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Ed ecco che la prima allusione politica arriva a p. 155. No, non gliene frega niente dell’elezione di Reagan a presidente USA: <<la politica ha continuato a non interessarmi per il resto della mia vita>>, e aggiunge: << Era stata un’emozione vuota>>.
Insensibilità per l’attentato a Reagan, per la crisi degli ostaggi in Iran…
eppure durante quel viaggio io ero stato coinvolto piú dalla perfezione del culo di Thom Wright che da qualsiasi altra cosa.
A proposito di oggetti poetici.
Scrive BEE
Erano il sesso e i romanzi e la musica e i film a rendere la vita sopportabile – non gli amici, non la famiglia, non la scuola, non la scena sociale, non le relazioni – e quella era stata l’estate in cui una settimana sí e una no avevo visto I predatori dell’arca perduta ma avevo cenato a stento un paio di volte con i miei genitori separati. Non investivo nel mondo reale – perché avrei dovuto? Non era fatto per me o per i miei bisogni o desideri.
E anche:
Irradiava quell’estetica «insensibilità come sentimento» che mi attirava tanto e che stavo cercando di perfezionare in Meno di zero, e mi esaltava vederla incarnata nel piú pop degli artefatti.
Molto chiaro, no?
Non si può chiedere a Ellis che teorizza l’ «insensibilità come sentimento» da che parte stia rispetto al mondo che descrive con sguardo asettico. E non è anche sul piano della partecipazione morale o meno al mondo descritto che si può stilare da parte nostra un giudizio, ma solo in base alle procedure stilistiche e artistiche adottate per rappresentarlo a questo punto.
era proprio l’insensibilità come provocazione, qualcosa di seducente, qualcosa che Susan aveva sviluppato per anni e che ora stava fiorendo.
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Il tema del naturalismo sordido:
Quando si voltò notai che qualche traccia del nostro sperma gli drappeggiava ancora il petto, dove si era dimenticato di pulirsi.
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Ci sono altri momenti di questo tipo: un porno scritto nell’epoca del porno diffuso e invasivo? Possibile?
Cinismo estetico
Le canzoni sono indubbiamente dei marcatori temporali con funzioni obiettivamente poetiche (molti film italiani degli anni Sessanta ne sono felicemente intrisi) ma qui hanno la mera funzione di glitteraggio decorativo, di richiamo di complicità per coetanei (siamo nell’epoca dei Blondie et alii) ma anche di coprire i vistosi vuoti del testo.
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College novel sì diceva, ma anche gigantismo letterario. Oltre 760 pp. Molte superflue. Manca il freno dell’arte o l’economia dei mezzi narrativi: l’effetto cric per esempio: minimo sforzo massimo rendimento. No: BEE predilige la prolissità fluttuante.
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La sotto-storia della scomparsa di Matt Kellner è lunghissima e eccessivamente indugiante su particolari superflui. Vittima si apprenderà del “Pescatore a strascico” il mostro alla Manson nella California dell’epoca…
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L’incongruenza del punto di vista focalizzato sull’autore che è anche protagonista oltre che voce narrante, imporrebbe che egli possa narrare solo fatti che cadono sotto la sua diretta osservazione, lui presente, e invece succede che egli narri fatti che accadono lontano dal suo sguardo, come ad esempio il ritrovamento del cadavere di Matt in piscina. Ed ecco che la voce narrante diventa onnisciente come in Dickens quando narra di David Copperfield. In genere questa incongruenza stilistica (certo non grave) viene camuffata da formule tipo “si venne a sapere in seguito” ecc. Qui no. C’è un semplice verbo: “E poi accadde che” ecc, il narratore che sta dentro la narrazione (intradiegetico) si smaterializza e diventa il narratore onnisciente (extradiegetico).
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La scelta della narrazione per successione di scene comporta un fatale ricorso al fitto dialogato che, seppur ben condotto, denuncia l’assenza di un’azione centrale ma un pulviscolo di azioni e un’assenza di tensione narrativa che tenga desta l’attenzione del lettore non sempre soddisfatta anzi sfarinata dal fitto dialogato e da eccessi di descrizioni spurie e insignificanti, lente e infinite (che si cerca di colorire mettendo sul piatto narrativo a mo’ di rammemorazione estatica per il lettore coetaneo e complice, con canzoni di stagione per esempio). Le infinite canzoni evocate hanno funzioni di glitteraggio decorativo, ripeto, evocativo e descrittivo dell’air du temps jadis e per questo meritano l’indicazione finale in lunghissimo elenco nei credits del romanzo. Wow! la playlist d’epoca da repertare su Youtube…
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Tra i pochi momenti memorabili di spleen con un gradiente di riflessione emotiva che s’allontana dall’intonazione di fondo di un referto narrativo che si vorrebbe privo di partecipazione emotiva, indifferente e insensibile per impostazione programmatica, ecco, non male questa:
E me ne rimasi lí nella luce del pomeriggio che sbiadiva, rendendomi conto, a diciassette anni, che stavo già guardando nel mio passato – e che il passato aveva un significato capace di definirti per sempre. Ricordo quel momento come uno dei primi in cui mi avvicinai all’età adulta, in cui compresi quanto fosse potente la memoria – o comunque fu la prima volta in cui mi fece cosí male. E non c’era niente che potessi fare riguardo al dolore del passato – si posò semplicemente su di me.
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Dopo la scrittura al maschile e al femminile occorre aggiungere la scrittura del terzo sesso con i suoi voltaggi espressivi, con le sue predilizioni, gusti, gesti, trame e incantagioni … Qui siamo evidentemente nel nuovo genere. Prenderne nota.
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È qui la dichiarazione di poetica di cui sopra…
volevo anche scrivere in quel modo: l’insensibilità come sentimento, l’insensibilità come movente, l’insensibilità come ragione di esistere, l’insensibilità come estasi.
Mentre qui:
Rosa [la cameriera ispanica] non era ancora arrivata e avevo mangiato una tazza di Frosties guardando Shingy caracollare spensierato sul prato.
Frasi-tipo in cui non succede nulla ma che sono un’istantanea, un frame, sul presente. Tutto il romanzo è intessuto di questi frammenti non narrativi di arrêt sur l’image che rendono la narrazione lenta e destinata ovviamente alla foliazione gigantesca (oltre 700 pp) private dal dono come sono della sintesi e della intuizione folgorante oltre che di una procedura stilistico-narrativa più fluida e meno collosa.
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Lo zaino Gucci, la maglietta Armani. Le Bmw, le Porsche, Jaguar… Sì, logo?
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L’annotazione minuziosa di ogni spostamento in città occupa paginate e non hanno alcuna funzione narrativa se non pittura d’ambiente e l’ammonimento al lettore provinciale: <<Ehi sto narrando da Los Angeles, il centro dell’irraggiamento dell’immaginario occidentale>>, ovvero della visione yankee del mondo. Impossibile ottenere lo stesso effetto se l’azione fosse stata ambientata in Armenia e non in America.
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Per uno come BEE che brama un universo letterario senza confini, potremmo fare la figura del poliziotto di frontiera, di quello che controlla i documenti. Eppure o lasciamo questo volumone al suo destino o qualche controllino dovremo pur farlo, visto l’impegno e il tempo che gli abbiamo dedicato. Perciò:
1) Non c’è dramma, non c’è urto interiore tra il soggetto narrante e il suo ambiente. Egli lo dichiara nettamente: non ha interesse per la politica, la sua anima non confligge con nulla: <<l’insensibilità come sentimento, l’insensibilità come movente, l’insensibilità come ragione di esistere, l’insensibilità come estasi>>, è scritto papale papale. Sotto questo profilo il romanzo raggiunge il suo scopo nell’ottica del WYSIWYG: rappresentare la corruzione dei costumi dell’upper-upper class come avamposto della corruzione universale, penso alla diffusione delle droghe e alla pornografia spontanea di massa che di lì a poco investirà tutto l’Occidente non meno insensibile per programma di questi giovanotti bene. Anche noi abbiamo conosciuto questa parabola: dagli Indifferenti di Moravia ai giovanotti bene del Circeo. (L’allusione a Moravia per BEE la fa Arbasino in America amore a proposito della lettura di Meno di zero).
2) E poi c’è una scelta stilistica che blocca il lettore. Ossia il ferreo show, don’t tell, l’approccio stilistico di quas eliminare quasi la voce narrante che porge il racconto e far agire i protagonisti in scene di tipo teatrale, quindi autonarrantesi ma per far ciò devi ricorerrere necessariamente a un robusto articolato di dialoghi, che non portano nessuna azione e non dipingono particolarmente i protagonisti o se lo fanno tu lettore ti sei nel frattempo smarrito e non sai dove vuole andare a parare… insomma vedi gli alberi e non più la foresta…
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I dissidi d’amore, le coppie che scoppiano, le feste di fine anno e quale ruolo assumervi nelle cerimonie rituali del College acquistano risonanze epocali nelle aspettative dei protagonisti, ma un bassissimo coefficente narrativo e un altrettanto modesto potere di uncinazione presso noi pazienti lettori.
Non tutte le storie, come le musiche polifoniche, si avvalgono del meccanismo di previsione e sorpresa e soddisfazione finale, ma se si sottraggono a queste attese del lettore medio, in genere virano in direzione di altri mezzi di seduzione (bei dialoghi, belle descrizioni, folgoranti aforismi ecc). Qui certamente i dialoghi sono tantissimi, proliferanti e infestanti, e in genere ben condotti dal mero punto di vista redazionale. Avendo l’autore optato per lo show dont’t tell è fatale, ma i dialoghi non aiutano a dipingere i caratteri (come avviene ne Le correzioni di Franzen che ha sceltovla stessa procedura stilistica della mimesi a posto della diegesi) né tanto meno a portare avanti l’azione, che è flebile o assente. D’altronde Ellis è lucido in questo. È una poetica consapevole e ampiamente esplicitata. ll lettore non è risarcito se non con gli ammiccamenti del mood musicale dell’epoca (elemento giustapposto, extranarrativo, dall’esterno al fine di creare un effetto di complicità con un sentimento d’epoca) e col prestigio geografico e cinematografico di una Los Angeles più che evocata e nominata topograficamente in ogni segmento narrativo come neanche Google maps o Waze. La strategia testuale con gli indugi perenni ci fa vedere alla lunga gli alberi e non la foresta. 767 pp di alberi!
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Tra bamboleggiamenti e rischi di vacuità (caricata di falso epos e piuttosto insulsa la Rimpatriata, festa di fine anno) mentre è giustapposta dall’esterno la vicenda del Pescatore a strascico che ricorda il Moosbrugger ne L’uomo senza qualità di Musil: cioè l’aggiunta di un elemento agglutinante di narrativa popolaresca in un romanzo di rarefazione spirituale).
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Il lettore è cucinato in fondo in un guazzetto di prosa narrativa a basso fuoco di intensità, tutta virata nella poetica dell’indifferenza come temperatura emotiva, dove tutte le erezioni e orgasmi, perlopiù provenienti da sodomie omo, restano in capo a lui e alle sue ripetute enumerazioni di canzoni e indicazioni viarie sfinenti.
E alla fine, si sbocca in una sorta di paradosso logico-estetico: se l’autore si dichiara programmaticamente indifferente, perché mai come lettori dovremmo partecipare emotivamente alla sua indifferenza?
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