Letteratura
Le parole per ripartire. Intervista a Marco Balzano
Vincitore del Premio Campiello 2015, finalista del Premio Strega 2018. «Ripartiamo dalla responsabilità».
Marco Balzano, insegnante e scrittore. Che cosa hanno in comune scrittura e insegnamento? Il desiderio di condivisione delle parole, la ricerca di un significato comune al fine di poter costruire un dialogo, il vero strumento di confronto democratico che abbiamo a disposizione da Platone in poi. Ma non solo: il desiderio di condividere il sapere, di credere nel valore conoscitivo della narrazione, di sorvegliare la manipolazione della lingua e di proteggerla dal degrado consumistico a cui è quotidianamente sottoposta. Anche solo questi pochi elementi credo che diano l’idea di come la lingua sia lo strumento essenziale del pensiero critico e, contemporaneamente, dell’immaginazione. Mi capita di ripetere spesso che la lingua non serve per comunicare, serve per avere i pensieri: se non conosco una parola non avrò il pensiero di quella parola e quando i pensieri sono pochi si è ovviamente più poveri, mentre quando sono pochissimi si diventa violenti perché la frustrazione di non saper comunicare i propri sentimenti, le proprie ragioni e le proprie idee genera sofferenza.
Si sente più insegnante o più scrittore? Insegnare è un lavoro che credo di saper fare, scrivere è un atteggiamento esistenziale, è il mio modo di stare al mondo, di fare i conti con le crisi, le ferite, i dubbi, con la speranza di comprenderli meglio e con la certezza di non portare a casa nessuna risposta definita. Una sorta di perenne educazione alla complessità.
Ha mai pensato di lasciare la scuola per dedicarsi solo alla scrittura? Quando, nel 2015, ho vinto il Premio Campiello ho preso il part time, da allora lavoro tre giorni a settimana. È un equilibrio accettabile per scrivere e viaggiare. Quest’anno ho preso un anno di congedo, avevo in programma di girare in molti paesi extraeuropei per presentare le traduzioni di Resto qui (Einaudi 2018). Ho fatto in tempo a fare qualche viaggio, poi è arrivata la pandemia. Ho usato questo tempo per scrivere il nuovo romanzo e stare con i miei figli. Adesso è giusto tornare a scuola: c’è bisogno di dare una mano, di mettersi in gioco, di pensare agli altri. Benché come scrittore visiti continuamente scuole, università, carceri, ecc. non sono sicuro che questo lavoro abbia sempre un’utilità sociale, mentre sono certo che insegnare è un lavoro socialmente utile. Ecco perché non lascio la scuola: perché ho paura di restare in balia delle mie parole, di finire col crederle troppo importanti, e di sentirmi inutile.
A settembre l’Educazione civica tornerà obbligatoria. Anche lei ne ha parlato lo scorso luglio sul Corriere della Sera, definendo la materia la “Cenerentola” della scuola italiana. Nelle ultime settimane si è fatto appello alla mancanza di Educazione civica anche per spiegare l’atteggiamento dei ragazzi durante le vacanze, giudicato poco attento nei confronti delle misure anti Covid. Che cosa ne pensa? Cosa ne penso di questa riproposizione dell’Educazione civica obbligatoria l’ho scritto nell’articolo che lei citava: è l’ennesimo intervento raffazzonato, approssimativo e non ponderato, con un fine principalmente propagandistico. L’appello all’educazione civica per spiegare gli atteggiamenti irresponsabili di alcuni giovani è ugualmente strumentale e spesso portato avanti da persone che non sanno nemmeno in cosa consiste realmente lo studio di questa disciplina. Ci vuole una bella faccia tosta a lamentarsi dell’atteggiamento dei giovani: nessuno ha fatto niente per loro, si sono limitati a togliere loro tutto, a chiuderli in casa e poi ad aprire senza criterio discoteche, sagre, spiagge. Chi ha deciso di aprire le discoteche cosa si aspettava? Che la gente ci andasse per ballare a due metri di distanza e non rivolgersi la parola? Mi pare vile dare la colpa all’irresponsabilità dei giovani, che nella maggior parte dei casi sono stati rispettosi di tutti questi divieti e hanno cercato di supplire a ciò che la pandemia ha loro improvvisamente tolto. Guardo con più preoccupazione a certe decisioni governative e mi confermo una volta di più che gli adulti mi preoccupano sempre più dei giovani.
In Primi giorni di scuola un giovane insegnante riflette su due parole: incuria e tenerezza. Nella scuola di oggi dove si possono trovare incuria e tenerezza? L’incuria cresce ovunque, non solo a scuola. È come l’erba che cresce sui marciapiedi e sui binari. L’incuria a scuola è sotto gli occhi di tutti, basti vedere quanto poco si è fatto durante questa pandemia, quanto poco si è progettata e pensata una nuova scuola. Secondo me è un problema di scarsa intelligenza politica, la scuola è fatta prima di tutto di giovani, dunque ha bisogno di una politica che sia progettazione, radicamento nel presente, preparazione del futuro, mentre la nostra politica è spesso vecchia e interessata al consenso immediato, dunque non riesce a preparare niente. Avremmo invece bisogno di umili seminatori, consapevoli dell’importanza di iniziare un lavoro di cui altri coglieranno i frutti. Queste mancanze generano un’incuria enorme ed è possibile che qualcuno approfitti dell’incuria per fare male il proprio lavoro. Per fortuna la maggior parte del personale scolastico lavora sodo e quando uno di loro riesce a mettersi in ascolto di un bambino o di un ragazzo, a riconoscere la sua intelligenza, a valorizzare il suo talento, allora si ha, come si legge nel Vangelo, la forza della tenerezza.
Qual è il punto di forza della scuola italiana? Il suo stesso punto di debolezza: la capacità di arrangiarsi. Io vorrei che smettessimo di saperci arrangiare. Io sono stufo di arrangiarmi. Vorrei invece tutti gli strumenti necessari per lavorare al meglio e per essere motivato e, perché no, sentirmi in obbligo, di fare ogni giorno e fino in fondo il mio dovere.
Come ha vissuto il periodo di lockdown? Facendo il maestro elementare a mia figlia Caterina e il maestro di scuola materna a mio figlio Riccardo e confermandomi che avere come insegnante il proprio genitore porta risultati davvero molto parziali.
Perché lei insiste sull’insegnamento dell’etimologia delle parole? Perché conoscere la storia di una parola, il suo significato originario, mi permette di usarla a pieno e di non accontentarmi dei significati parziali che mi vengono proposti, ad esempio, dalla pubblicità, dai media, dalla politica. L’etimologia è un atto di cura verso la parola e dunque verso il pensiero e, infine, verso noi stessi. Vuol dire non farsi bastare la pelle delle cose, ma scavare nel passato, dietro la superficie. Un cuoco che conosce il significato della parola “mestolo” saprà fare meglio il cuoco, ne sono sicuro.
Nei suoi libri cita spesso Giacomo Leopardi. Che cosa vi lega? Ho scritto due libri su Leopardi e molti articoli su riviste specializzate. È “il mio autore” come dice Dante, quello con cui ho un dialogo continuo, che rileggo costantemente per la sua enorme portata di sentimenti e conoscenze. Per me è il filosofo che smitizza la superbia dell’uomo e il poeta della giovinezza.
Tre parole sulla scuola con le quali ripartire a settembre. Aggiornamento, lezioni all’aperto, responsabilità.
(Intervista rilasciata alla newsletter mensile sulla scuola La classe non è acqua)
Immagine di copertina su gentile concessione di © Associazione Culturale Fotografica Il Monocolo
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