Letteratura
Le parole di Romeo Castellucci
La prima volta che li vidi, sul finire degli anni Ottanta, a Urbino, rimasi senza parole.
Cosa era quel teatro? Era teatro? Cosa stavano facendo? Lo spettacolo era Santa Sofia-Teatro Khmer, e loro erano la Socìetas Raffaello Sanzio. Ho avuto la fortuna e il piacere di vedere molti, non tutti, gli spettacoli del gruppo di Cesena, spesso al loro debutto. Gilgamesh, Amleto, Orestea, Giulio Cesare, Uovo di bocca, Hansel e Gretel, e poi ancora Buchettino, Genesi, Voyage au but de la nuit, alcuni capitoli della Tragedia Endogonidia, Sul concetto di volto nel figlio di Dio, Uso umano di esseri umani e poi ancora altri fino a Il Terzo Reich. Non ho ancora visto Bros, tuttora in tournée (sarà al Teatro di Roma fino al 12 marzo). Insomma, il lavoro di Romeo Castellucci, di Chiara Guidi, di Claudia Castellucci ha segnato la mia vita, ed è ben impresso nel mio immaginario.
A volte ho provato anche a scrivere di quei lavori complessi, a tratti oscuri, difficili, sempre meravigliosamente affascinanti e conturbanti. Non sempre ci sono riuscito. Perché il teatro della Socìetas è qualcosa che sempre di nuovo si può scoprire, che svela se stesso nel dipanarsi del tempo, nello schiudersi di metafore all’impatto intransitive, che poi magari, sedimentando e schiarendosi, distillano significati inattesi, parlando al dopo, ad un tempo futuro. Per questo mi è piaciuto moltissimo il libro che Cronopio, con la consueta eleganza e la abituale profondità, ha portato in libreria.Si tratta di “La disciplina dell’errore, il teatro di Romeo Castellucci”, edito a fine 2022, con la cura di Alice Guareschi.
L’autore è il giornalista e scrittore francese Jean-Louis Perrier, firma di “Le Monde” e delle riviste “Mouvement” e d“Alternatives Théâtrales”. Insomma, uno informato dei fatti.
Ebbene Perrier ha avuto la sistematicità di raccogliere in questo agile volume scritti e interviste di Romeo Castellucci, che abbracciano un periodo di tempo che va dal 1997 al 2014. Ed è estremamente affascinante vedere il percorso di pensiero di Castellucci, le sue intuizioni, le sue costanti e le sue variabili, potendo leggerle con la saggezza del “dopo”, ossia la consapevolezza di ciò che è stato, (ri)trovare quelle parole aguzze, profonde, attente con cui Romeo normalmente affronta la complessità della creazione scenica. Attenzione, bene dirlo subito: questo non è un libro per “iniziati”, per specialisti, per ossessionati del teatro. Anzi si dipana con chiarezza, a tratti con una evidente curiosità che spinge il gioco di domande e risposte, intervallate da brevi saggi o articoli dello stesso Perrier che sa così contestualizzare, ben introdurre, addirittura spiegare temi o argomenti.
Scrive l’autore: «Per i Castellucci il teatro è spuntato dalla terra come un disegno dalla matita di un bambino. Claudia e suo fratello Romeo hanno cominciato collezionando le bizzarre figure che offriva loro la campagna romagnola: un vagabondo che viveva da solo in montagna; un mendicante che dormiva con i suoi sei cani; una donna muta che si esprimeva gridando; un pazzo con un melone in testa. “per noi erano personaggi sbucati direttamente dalle fiabe”. Le carovane dei gitani e i piccoli circhi di passaggio facevano viaggiare la loro immaginazione». A pensarla così, si potrebbe tentare anche un accostamento con l’universo onirico di un altro vivace romagnolo, quel Federico Fellini che – in un modo o nell’altro – ha pervaso l’immaginario comune. Ma lo sappiamo: Romeo e la Socìetas hanno intrapreso da subito un feroce corpo a corpo con l’immagine e l’immaginario (proprio con quel Teatro Khmer che tanto mi colpì) incarnando la contraddizione di voler abbattere il teatro facendolo. Romeo non si è sottratto alla sfida, e anzi ha costantemente rinnovato il confronto feroce con la matrice del teatro. A proposito dell’Orestea, in una intervista del 1997, dice: «I classici si fondano su una universalità immediatamente identificabile da chiunque, al di là della cultura, al di là di qualsiasi preparazione intellettuale, ed è la cosa che mi interessa, perché il mio teatro non è un teatro intellettuale, né un teatro di poesia in grado di parlare solo agli specialisti: è un teatro infantile, un teatro che cerca di comunicare in una forma elementare o elementale, e passa principalmente da una via fisica, epidermica» (pag 31).
Anni dopo, quando Perrier domanda «Qual è secondo lei il primo gesto teatrale?», Romeo Castellucci risponde: «Stare in piedi sulla scena davanti agli altri. È un gesto incredibile, che deve essere costantemente ripensato. Bisogna pensare continuamente al supporto, per portarlo ininterrottamente a nuova vita. Al teatro non basta l’abitudine. Solo perché abbiamo fatto sempre così – salire su un palco e recitare – non vuol dire che non dobbiamo senza sosta riconsiderare i suoi elementi. Il problema dell’arte non è la sua creazione, ma la sua ricreazione. In questo ho un rapporto estremamente forte con la Genesi. Ogni artista occidentale ha a che fare con essa. Che lo voglia o meno». Incalza Perrier: «Lei è ateo?» e un laconico Castellucci risponde: «Non lo so» (pag 41-42).
Mi rendo conto, adesso, che per scrivere questo articolo ho trascritto praticamente tutto il libro. Ogni passaggio è intrigante, fa pensare, mette in discussione tutto e tutti (a partire da se stesso), come se in questo florilegio di interviste e articoli ci sia un tormento estenuante, un faticoso confronto con l’insondabile, il non rappresentabile: sostanzialmente con il Nulla. Rito e mito si intrecciano e si sconfessano, fede e eresia si scontrano, immagine e iconoclastia si affermano e si negano. Per quella che è, e forse è sempre stata, una ontologia nel presente.
E mentre Romeo Castellucci sta lavorando a Eleusi (a settembre, per Eleusi Capitale della cultura europea) interrogandosi sulla origine dei Misteri, risuonano alcune parole dette a proposito della Tragedia Endogonidia: «La tragedia è il cuore stesso del teatro, l’unica materia che mi interessa, l’unica possibile. Non un oggetto, ma una forma universale. La tragedia rifugge l’oggetto, cambia nel tempo, è sempre in un altro luogo. Non resta mai davanti a voi come uno spettacolo. È piuttosto dietro, o di lato, al di sopra o al di sotto. Ho ritrovato questo rapporto con la tragedia davanti ai quadri di Mark Rothko alla Tate Modern. Sono una epifania della tragedia, quando essa può condensarsi nella forma più semplice: la luce. Ho scoperto in seguito che Rothko aveva cambiato il suo modo di dipingere dopo aver letto La nascita della tragedia di Nietzsche». (pag 74).
Sono considerazioni affascinanti, come del resto è tutta l’opera di Castellucci, un’opera che, secondo l’artista di Cesena, si basa sul rischio: «La dimensione del rischio è una presenza costante nel lavoro artistico, perché è un viaggio verso l’ignoto. Un viaggio nell’oscurità della forma. Non esistono mappe per orientarsi (…) Se non c’è rischio l’arte diventa decorativa. Il rischio è il cuore della condizione teatrale. La vera arte è pericolosa (…) prima di tutto per me, ma anche per lo spettatore (…) quando siete davanti a un’opera d’arte, avete la sensazione di essere guardati dall’opera, e non il contrario. Il vostro sguardo non si posa su un oggetto, ma diventate voi, piuttosto, l’oggetto dell’opera. Avete la sensazione di essere nudi, smascherati (…) è questa la bellezza: essere stanati. La bellezza non è un oggetto. È in ognuno di noi. Non è semplicemente una forma bella, ben proporzionata. La bellezza è venire sorpresi, anche dalla bruttezza, dalla violenza, e dalla tenerezza. La bellezza è come un raggio capace di toccare un angolo nascosto nel fondo di noi stessi». (pag 76).
Il volume poi procede, spettacolo dopo spettacolo, anno dopo anno, integrando anche un affascinante “Abbecedario” castellucciano, che contiene come lemmi parole quali alfabeto, barba, bandiera, culo, fumo, ebraico, guanti, immagini, Jésus, maschera, numeri, organi, sangue, utero, voce e altre (pag 83-96). E quando Jean-Louis Perrier chiede a Castellucci se si sente un “maestro”, la risposta è perentoria: «Il maestro deve essere coerente, a me non interessa la coerenza. Ciascuno deve trovare il proprio punto di contraddizione. Non voglio essere polemico rispetto ai grandi maestri del teatro, ma il maestro istituisce un rapporto schiacciato, univoco, e io non credo ai rapporti univoci, credo piuttosto agli scambi, sullo stesso livello. Bisogna essere aperti» (pag. 123). A completamento della proposta editoriale, “La disciplina dell’errore” contiene anche un bel saggio del filosofo Felice Cimatti, che tra semiotica e iconologia, evocando Wittgenstein o Deleuze articola dieci tesi, altrettanti acuti spunti di riflessione, che partono da parole-mondo, concetti chiave come contra signum, pro signum, iconoclastia, supertecnica, voce, macchina, bestia, musica, fuori, meraviglia.
Avviandosi alla fine di questo percorso di incontri e interviste, brilla una dichiarazione del 2014, raccolta a Bologna: «Per il momento ho idee fino al 2017. Dopo vorrei o non fare nulla, o fare altro. Si tratta di tenere il passo. Ritirarsi è estremamente difficile per diverse ragioni (…) Però vorrei cambiare linguaggio. Non sono uno specialista del teatro, non voglio cadere nella trappola di considerare il mio lavoro come una attività professionale. Penso che ci si debba sempre mettere in pericolo, come dei debuttanti. Bisogna dunque inventare un linguaggio, perché l’unico modo di lavorare è quello di considerare il teatro come una cosa strana, e che deve restare strana. Se diventa una abitudine, è la morte e a volte ci sono andato vicino» (pag 171). Per nostra fortuna, non è andata così: la storia ci dice che le idee non sono mancate.
per info: http://www.cronopio.it/edizioni/
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