Letteratura
Le parole di Dante per raccontare l’orrore dei Lager
Un paio di anni fa, la professoressa Marina Riccucci del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa, lavorando alla tesi di una sua allieva su “Dante e il Lager”, decide di avviare una ricerca approfondita sull’uso del lessico dantesco da parte dei sopravvissuti. Prende quindi in considerazione fonti non letterarie, cioè diari, lettere e racconti orali di chi ha vissuto il Campo, un patrimonio vastissimo di cui fanno parte, per esempio, “Un mondo fuori dal mondo”, indagine dell’istituto DOXA condotta nel 1971 tra gli ex-deportati italiani. Salta agli occhi l’enorme difficoltà che i testimoni hanno nell’esprimere l’inesprimibile: la frase che usano di più è «non ci sono parole per dirlo». Quando però arrivano a dare un nome e un volto a ciò che hanno visto e subìto, viene loro spontaneo, quasi in virtù di un automatismo, ricorrere all’immaginario infernale dantesco, indipendentemente dal loro livello di istruzione: si attinge a Dante come a un patrimonio linguistico collettivo, senza ambizioni letterarie, spinti dall’urgenza di trovare un codice, le parole, appunto. Bolge, diavoli, demoni, l’oltretomba, gironi infernali, l’eterno dolore e la perduta gente, malebolge, voci alte e fioche, pianti e alti guai, girone e, quando parlano del momento della liberazione, essere tornati a riveder le stelle.
I primi risultati dello studio, insieme a stralci di interviste realizzate ad hoc con Liliana Segre, Goti Bauer e Mauro Betti – dissidente politico internato in vari campi – saranno pubblicati nel 2019 sulla rivista “Italianistica”. Ovviamente esistono già studi sul tema, però esaminano la traccia dei versi danteschi nelle testimonianze letterarie, nate per essere letteratura, libro, testo letterario insomma. Leggendo e soprattutto ascoltando i racconti di chi è tornato, Riccucci si rende conto di quanto è interessante e utile provare ad andare oltre la letteratura; che bisognerebbe soffermarsi sulle interviste, soprattutto su quelle rese alle platee di studenti nelle scuole. Ed ecco nascere “Le parole per dirlo: l’Inferno di Dante per testimoniare l’esperienza dei Lager”. Chi ha conosciuto il campo di sterminio – sostiene la professoressa – ha bisogno di trovare i vocaboli per poter arrivare a “buttarlo fuori”, quell’orrore, per poter arrivare a darne testimonianza. Per dire tutta l’atrocità e la nefandezza di quella mostruosità criminale. Colpisce per esempio che nei racconti a cui tutti noi abbiamo assistito “in diretta” più e più volte, ricorra di continuo la metafora condivisa secondo cui il Lager è l’inferno. Ogni testimone, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino o ragazza di allora, indistintamente, “grida” a chiare lettere che il Lager lo è.
Il partigiano Roberto Camerani ha raccontato che arrivando a Mauthausen «strinsi i denti e pensai che, come Dante, ero arrivato all’inferno». D’altronde non ci stupiamo certo del nesso Lager-Inferno, pertinente al punto da essere percepito ormai nell’immaginario collettivo come scontato. Secondo la ricerca di Pisa invece il nesso è nuovo e attiene all’età contemporanea: prima non esisteva, semplicemente perché prima il Lager non esisteva. Dunque il Lager è l’inferno, e sembrerebbe non ci fosse altro da dire. Al contrario, c’è molto altro. A dimostrarcelo sono gli studi di Marina Riccucci. È provato – spiega lei stessa – che in moltissimi casi, per riferire dell’orrore concentrazionario, gli scampati – persone di ogni livello di istruzione, dunque non solo letterati o intellettuali – sceglievano e si affidavano al vocabolario dantesco, in particolare a quello della prima cantica, dell’Inferno, appunto. Non per fare letteratura, bensì in nome dell’urgenza di “fare memoria”, di conservare la Storia personale e collettiva, e per “fare memoria” avevano trovato solamente la poesia, nella fattispecie la poesia di Dante Alighieri. «Beninteso, le testimonianze di cui sto dicendo non sono tramate tutte e non sistematicamente o capillarmente di versi danteschi, i versi danteschi a un certo punto scoccano dalle labbra di questi uomini e di queste donne, a siglare, a dare la cifra, a esprimere l’inesprimibile». Quante volte ricorrono frasi come «è indicibile», «è indescrivibile», «irriferibile». Poi a un tratto, ecco che arriva il termine, l’espressione dantesca, e escono dalla bocca di individui che non sono poeti né scrittori e talvolta neppure particolarmente colti. È ciò che rende straordinario il dato, il meccanismo che agisce, che si fa lingua italiana.
Il lavoro scientifico dell’Università di Pisa è ricco di note, rimandi, citazioni. Come quella di Hanna Lévy-Hass, deportata di origini jugoslave che nel periodo del suo internamento a Bergen-Belsen tenne un diario: «Potrei scrivere e scrivere centinaia di migliaia di pagine, eppure non terminerei mai, volendo sondare tutta l’infelicità, rendere palpabili tutti i tremendi dettagli della nostra esistenza. […] Supera di gran lunga il limite delle mie capacità. Più di una volta, in questo o quel momento della nostra vita da schiavi, di fronte agli estremi tormenti di massa, mi son vista davanti l’inferno dantesco. Ma non per dilettarmi con reminiscenze letterarie. Perché le rappresentazioni dell’inferno, alle quali l’immaginazione è avvezza, erano l’unica impressione che il mio cervello sapesse ancora elencare. Non ero in grado di risvegliare un qualsiasi altro ricordo. Era l’unica idea ancora viva nella mia mente». E un uomo intervistato nel 1970 disse ricordando che cosa aveva pensato al momento dell’arrivo al campo: «Da qui non esco più, ho pensato, alla vista di quell’orrore mi è tornata in mente la frase “Lasciate ogni speranza, voi che entrate”. Morti e morti dappertutto».
“Lasciate ogni speranza, voi che entrate” pare essere una sorta di riflesso condizionato in numerosissimi racconti. Un brano dalle memorie del frate cappuccino padre Giannantonio da Ramallo (mai pubblicate e conservate nell’archivio ANED a Milano): «Dopo un’ampia svolta si giunge di fronte al campo. V’è una scritta sull’arco della porta, “Arbeiterlager” “Campo dei lavoratori”. Dopo l’esperienza dei primi giorni vi si poteva invece scrivere, e ben a ragione, la nota terzina da Dante: “Per me si va nella città dolente, Per me si va nell’etterno dolore, Per me si va tra la perduta gente” (…) Fummo accolti con carezze di bastoni. Otto o dieci incaricati all’ingresso, o per sollecitarci o per metterci apposto o per nessun motivo, davano a casaccio botte da orbi, che sulla pelle nuda si sentivano di più e lasciavano il segno. Come non ricordare la terzina “Caron dimonio, con occhi di bragia… batte col remo qualunque s’adagia”».
Immagino l’emozione, la spinta ad andare avanti della professoressa Riccucci: «Ho iniziato da capo e ho cominciato ad ascoltare, ad ascoltare, ad ascoltare. Allora ho incontrato Mirella, la voce sottile di Mirella, signora analfabeta, morta nel 2005, che dice “non sapevamo che esistevano i campi di concentramento e quando arrivai lì mi dissi che non sapevo cosa vedevo, cercavo di dargli un nome e lo trovai: ero arrivata all’inferno, ero tra la perduta gente”. Perduta gente è espressione che Dante usa nel terzo canto dell’Inferno». E Liliana Segre parla dello stupore che prova inesorabilmente di fronte a quel male altrui. Quel male altrui è una traccia dantesca, un verso del secondo canto dell’Inferno. «Ciò di cui si deve avere paura», dice Beatrice, «è di sole quelle cose c’hanno potenza di fare altrui male; dell’altre no, ché non son paurose». La potenza nefanda di fare altrui male è quella che i sopravvissuti non possono dimenticare, che spesso non perdonano, che tiene viva in loro la paura, che li ha costretti per anni a tacere, la potenza che alimenta la natura insanabile dell’offesa, che è inesauribile fonte di male, che lascia nei salvati la vergogna che i tedeschi non conobbero, la stessa vergogna che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui. Il contatto diretto con il male che induce, come dice Liliana, stupore.
E Riccucci – evidentemente – sempre più si appassiona, ne parla nei convegni. Proprio in un convegno viene avvicinata da Joseph Levi, rabbino-capo di Firenze fino al novembre 2017. Rav Levi le “regala” la storia della propria nonna Lina e in seguito le fa avere un documento bellissimo.
«La ricerca sta andando avanti, sto leggendo e ascoltando decine e decine di testimonianze alla ricerca di quel termine, di quella espressione che Dante ha consegnato con quel determinato significato, in quella specifica accezione e ne ha fatto vocabolario universale, a cui chiunque può attingere. Un vocabolario che in qualche modo salva dal silenzio, che pare tutelare dall’oblio, che di per se stesso è messaggio e testimonianza. In questi individui ha agito qualcosa di potente. Il bisogno di dare un nome a una realtà che fino al momento in cui non ci sono entrati in contatti non esisteva e che quindi un nome non ce l’aveva. Il nostro lavoro dovrà portare alla luce queste parole e dare loro risonanza, affinché si possa, anche così, capire e conoscere, per citare il titolo di un libro che racconta la testimonianza di un sopravvissuto al Lager e che è uscito nel 2016, “Ciò che Dante non ha visto”».
La forza, vorrei dire la determinazione, del lavoro dei pisani sta nella consapevolezza che nella nostra Storia la giustizia divina che caratterizza il poema dantesco è letteralmente capovolta: nei Lager, infatti, a essere torturate e uccise furono vittime innocenti dei colpevoli aguzzini. «Non dimentichiamo mai che ciò che i salvati hanno conosciuto e subìto è un regno dei vivi con carnefici e dannati, in cui milioni di persone si sono trovate a essere dannate senza avere commesso alcuna colpa. È questo che dobbiamo ricordare: perché nessuno dimentichi, perché niente di così atroce si ripeta mai più». È straordinariamente empatica questa “prof” quando candidamente afferma che «Abbiamo appena iniziato. E lo facciamo per loro. Per chi non è potuto tornare. Per chi ci consegna la loro testimonianza». Per tutti coloro insomma, per citare ancora la senatrice Liliana Segre e il suo Dante tristemente e consapevolmente attualizzato… «il mar sovra noi sarà richiuso» (alla trasmissione di Fabio Fazio sull’inferno dei migranti nelle “prigioni” libiche – 28 dicembre 2018).
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