Letteratura
Le molteplici identità del popolo ucraino
Era il luglio del 2012 quando a bordo di una Chevrolet automatica noleggiata qualche giorno prima all’aeroporto di Boryspil io e Lorenzo, un fotografo di Pesaro, arrivammo all’imbrunire a Zmiyivka, dopo un viaggio di circa di sette ore da Donetsk. Ciò che ci aveva spinti in quello sperduto villaggio svedese di circa 300 anime sulle rive del Dnipro nell’oblast di Kherson, regione oggi assurta alle cronache internazionali per i crimini di guerra del Cremlino nella sua sedicente “operazione speciale di denazificazione”, era il desiderio di documentare attraverso foto e video (poi confluiti nell’ebook Ucraina on the road) una storia singolare, quella di un’antica comunità svedese risalente alla fine del Diciottesimo secolo, a suo modo paradigmatica del crogiuolo di etnie che costituisce l’Ucraina attuale.
Leggendo Mosaico Ucraina, il libro della giornalista di Leopoli Olesja Jaremčuk, tradotto in italiano da Claudia Bettiol e pubblicato da Bottega Errante Edizioni, i ricordi di quel viaggio di dieci anni fa, in un Paese che non aveva ancora conosciuto gli orrori della guerra di Putin con il suo contorno di morte, stupri e distruzioni, sono tornati vivi nella mia mente assieme a tanti pensieri.
Molti dei luoghi narrati dalla Jaremčuk nel suo reportage, il cui sottotitolo recita “Viaggio dentro le molteplici identità di un popolo”, sono infatti gli stessi che ho avuto modo di visitare in quasi vent’anni andando alla scoperta di una terra ricca di sedimentazioni storiche e culturali e caratterizzata da una straordinaria vocazione al dialogo e alla tolleranza.
La poliedricità dell’Ucraina con le sue infinite sfaccettature etniche e l’idea di una ucrainità che si espande improvvisamente, aprendosi a tutti gli angoli del mondo, superando le mura del nazionalismo etnico (dovrebbe essere ormai chiaro come il nazionalismo ucraino sia inclusivo e civico), sono alla base di questo progetto nato, quasi per caso, sette anni fa.
In un video realizzato da Oleksandr Fraze Frazenko, la Jaremčuk racconta che l’idea del reportage prende forma nel 2015 dopo una visita a Brody, città natale dello scrittore Joseph Roth, su cui stava scrivendo una dissertazione accademica.
“Ricordo la mattina in cui mi sono alzata dal letto e mi sono messa in viaggio. Era inverno, una corriera gelata mi ha portata a Brody, anche se non capivo del tutto il perché. Sapevo che Joseph Roth, uno scrittore e un giornalista, su cui stavo facendo ricerche accademiche, aveva vissuto in quella città. Non sapevo altro. Il direttore del Museo di storia locale mi disse che gli ebrei non vivevano più lì. Erano tutti quanti morti durante l’Olocausto, oppure avevano lasciato il Paese. Sofia Solomoniva Poliner era l’ultima ebrea rimasta in città. E Brody era la Gerusalemme della Galizia. Un tempo l’89 per cento degli abitanti era ebreo…”
Ed è proprio dall’incontro con l’ultima ebrea in una città ebraica della Galizia che matura nella Jaremčuk l’idea di scoprire “i nostri armeni ed ebrei, i nostri polacchi, cechi e slovacchi, i nostri rom, i nostri tedeschi, i nostri gagauzi, i nostri valacchi e albanesi”.
Gli 11.000 chilometri percorsi dalla reporter ucraina per raccontare le persone di diverse identità culturali che vivono entro i confini dell’Ucraina – cechi e slovacchi, turchi mescheti, svedesi, rumeni, ungheresi, rom, ebrei, liptak, gagauzi, tedeschi, valacchi, polacchi, tatari, armeni – rappresentano la quadratura del cerchio di un percorso intrapreso, forse inconsapevolmente, durante l’infanzia.
“Nella casa di Leopoli dove sono cresciuta vivevano persone di origini diverse: armeni, ebrei, russi e ucraini. Da bambina questo mosaico si è fissato nella mia memoria e più avanti, quando sono diventata una giornalista, ho deciso di sbrogliare questo intrico di storie”.
La cronaca delle miriadi di migrazioni volontarie e forzate, che hanno attraversato l’Ucraina per secoli rendendola un Paese policromo e sfaccettato, parte da Hrušvycja Perša, un villaggio nei pressi di Rivne e dalla testimonianza di Josyp, la cui famiglia arrivò in Volinia dalla Slovacchia orientale per prendere il posto dei coloni cechi che se ne erano andati dopo la Seconda Guerra Mondiale.
I cechi – racconta Josyp – capirono subito cosa fossero i kolchoz, ovvero le proprietà agricole collettive, e chi fossero realmente i sovietici.
Per tornare in patria strinsero un patto con i generali sovietici. Avrebbero liberato Praga dai tedeschi in cambio della possibilità, finita la guerra, di lasciare la Volonia.
L’offensiva di Praga, ultima operazione dell’Armata Rossa in Europa della Seconda Guerra Mondiale, terminò l’11 maggio 1945. I cechi della Volinia parteciparono attivamente alla liberazione della Cecoslovacchia dall’occupazione nazista e il comandante Ludvik Svoboda dovette rispettare l’accordo sul ritorno dei coloni.
Il documento che permetteva il rientro in patria venne firmato un anno più tardi il 10 luglio 1946 a Mosca.
A quei circa quarantamila cechi, i cui antenati si erano stabiliti in Volinia negli anni Sessanta dell’Ottocento, venne concesso il diritto di lasciare l’Ucraina.
Per colmare il divario demografico sorto con la loro partenza, l’Unione Sovietica, tramite il partito comunista cecoslovacco, iniziò a inondare i villaggi della Slovacchia Orientale di volantini in lingua russa dal titolo Se sei russo, il tuo posto è in Russia.
“C’era una propaganda sfacciata” – racconta Josyp. “Nessuno avrebbe mai potuto pensare che i vertici dello Stato potessero far girare bugie così grandi. Questi emissari sovietici descrivevano un posto dove scorrevano fiumi di latte e miele”.
Fu così che suo padre e migliaia di persone come lui, abbagliate dalla propaganda, decisero di lasciare i loro villaggi in Slovacchia e di partire alla volta della Volinia dove il partito comunista avrebbe fornito loro fattorie, cavalli e tutto ciò di cui avevano bisogno.
Una volta giunti in Ucraina la drammatica verità venne presto a galla. Non c’era nulla di quanto promesso, tutto era andato distrutto dalla guerra e in più era impossibile tornare indietro perché i sovietici avevano chiuso i confini.
I genitori di Josyp tentarono ugualmente di ricominciare una nuova vita, si misero a lavorare la terra ma, due anni più tardi, nel 1949, i loro quattro ettari e il frutto del loro lavoro vennero espropriati dal kolchoz locale appena sorto. Josyp ricorda che i propagandisti dicevano in russo: “tutto è nostro, tutto è di tutti”. Quella, fu la prima lezione del socialismo.
Racconti per certi versi simili sono quelli di Marija Mal’mas, un’anziana signora svedese incontrata dalla Jaremčuk a Zmiyivka.
“La rivoluzione nei territori dell’Impero russo e gli anni della carestia sotto il dominio bolscevico preoccuparono la Svezia, che teneva particolarmente ai suoi emigrati. Nel 1921 lo Stato svedese fece quindi ufficialmente appello a Mosca affinché consentisse alla popolazione di Gammalsvenskby di tornare nella sua patria storica. Il Cremlino cercò di trattare visto che gli stessi svedesi ucraini erano riluttanti a trasferirsi: le loro case e i loro campi erano lì, d’altronde”.
Dopo lunghe trattative nel 1929 alcune centinaia di svedesi del villaggio furono autorizzati a lasciare l’Unione Sovietica e a fare ritorno in patria, settimane prima che Stalin chiudesse il confine per sempre.
Tuttavia gli svedesi ucraini non misero mai radici in Svezia anche perché arrivarono a Gotland nel mezzo di una grave crisi economica, alcuni furono anche vittime di episodi xenofobia.
Nel frattempo l’URSS non aveva smesso di pompare la propria propaganda ed esortava gli svedesi a tornare in Ucraina dove la vita, a loro dire, era eccellente.
Gli svedesi tornarono e fecero un regalo alla propaganda sovietica. Il loro caso fu usato strumentalmente come monito per dissuadere anche la comunità tedesca di Zmiyivka a non lasciare quelle terre.
I nonni di Marija, una volta rientrati in Ucraina, furono deportati a Kherson, costretti a confessare che erano dei kulaki e privati di tutti i loro averi proprio mentre nel 1932 la carestia artificiale voluta da Stalin, nota come Holodomor, mise in ginocchio l’intera regione.
Gli svedesi che firmarono un documento in cui chiedevano al governo di essere rimpatriati in Svezia, vennero arrestati dalla GPU, la polizia segreta di Stalin. Nel corso degli anni successivi, i terribili anni delle purghe staliniane, diversi abitanti del villaggio furono barbaramente uccisi.
Ciò che accomuna le quattordici storie narrate dalla reporter ucraina è la circostanza che le diversità sono sopravvissute (o meno) al rullo compressore sovietico dell’unificazione linguistica, culturale e religiosa. E il fatto che con la nascita dell’Ucraina indipendente le condizioni di queste minoranze etniche siano decisamente migliorate. Jasim, un turco mescheta del villaggio di Vasjukivka, vicino a Bachmut (Donbas), dove – prima dell’invasione su larga scala del 24 febbraio 2022 – 222 dei 690 abitanti erano turchi mescheti, sostiene che in Ucraina la sua etnia è stata ben accolta. Non ci è mai stato detto “Tu sei turco e io sono ucraino”. Il popolo ucraino – conclude Jasim – ci ha aiutato in tutto!
Olesja Jaremčuk – Mosaico Ucraina. Viaggio dentro le molteplici identità di un popolo (Bottega Errante Edizioni, 2022)
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