Letteratura
“Le intermittenze della morte”, Josè Saramago: un romanzo saggio. In ogni senso
“[…] se non riprenderemo a morire non abbiamo futuro.”
José Saramago, “Le Intermittenze della morte”, Feltrinelli, Milano, 2012 (tredicesima edizione 2023)
Ho preso come incipit delle mie impressioni di lettura di questa opera del Premio Nobel per la letteratura José Saramago, la apparentemente contraddittoria frase che ho citato qui sopra ma che, in fondo, dice qualcosa di vero.
“Le intermittenze della morte” è un libro importante; complesso, multistrato, politico, filosofico, ironico e spiazzante. Scritto nello stile unico di Saramago, che è fatto di una scrittura che vede un flusso costante di parole con il solo utilizzo di punti e virgole; stile che certamente chiede un surplus di attenzione ma che è cucito addosso ai temi che l’autore tratta, richiamando alla struttura di un altro capolavoro dello scrittore portoghese, “Cecità”.
La storia è ambientata in uno Stato immaginario e innominato entro i cui confini, allo scoccare di un 31 dicembre, si smette di morire. In quel Paese la morte cessa di abbattere la sua falce sull’umanità che in quel luogo vive. La vita eterna, che parrebbe essere l’ambizione di tutti, diventa realtà e, da subito, si coglie l’altissimo profilo del libro. Perché l’autore, con uno stile ricercato che è altresì lezione di articolazione dialettica, si inerpica in una serie di deduzioni logico-razionali connesse a tale, assurda, possibilità.
Emerge così la portata, se non catastrofica quantomeno problematica, di una siffatta situazione. Perché se si smette di morire va in crisi la società nel suo insieme: i malati terminali stanno in uno stato di agonia permanente, le imprese di pompe funebri falliscono, i sistemi pensionistici saltano, le “dimore del felice occaso”, ossia le case di riposo, esplodono. E, quando una stremata famigliola che non riesce più a sostenere l’agonia di un nonno e del suo piccolo nipote varca il confine per portarli a morire, si avvia un patto tra Governo e “maphia” per organizzare viaggi della liberazione dalla tortura della “non vita” oltre confine, dove si continua a morire (che pare quello che succede per gli italiani stremati da una “non vita” che chiedono di andare in Svizzera per farla finita).
Ma la morte, dopo circa sette mesi, fedele al suo potere assoluto, riprende la sua opera e torna a operare; e lo fa inviando lettere viola che annunciano alle persone che di lì a qualche giorno moriranno. Ma nell’eterno e implacabile mestiere della scheletrica signora vestita di un drappo nero e munita di una algida falce arriva un intoppo. Che ha le sembianze di un violoncellista che vive solo col suo cane. La morte, per compiere il suo dovere, dovrà prendere le sembianze di una donna così da consegnare la lettera che annuncia la morte al violoncellista; ma, ecco, l’avvio verso l’emozionante, spiazzante e commovente finale di cui nulla dico.
“Le intermittenze della morte” è un romanzo attualissimo e, innanzitutto, profondamente “politico”. Tocca, infatti, attraverso la narrazione immaginaria, la grande questione del fine vita e della prostrazione che sta nel vivere una vita che non è più vita. Ma tocca anche la questione dirompente, da un punto di vista sociale ed economico, di tutte le conseguenze – mai (comprensibilmente) pensate – che si avrebbero nel momento in cui si dovesse smettere di morire. Non reggerebbe più alcun sistema e – per l’appunto – non avremmo futuro.
“Le intermittenze della morte” è un denso romanzo filosofico, non solo perché “filosofare è imparare a morire” , ma perché tutto il dipanarsi della narrazione è un continuo affondo su interrogativi di carattere etico, religioso ed esistenziale. Tra i tanti passi che mi hanno colpito vi è questo passaggio messo in campo in una dissertazione teologica incentrata sul “… dubbio se dio avesse o meno autorità sulla morte o se, al contrario, la morte fosse il superiore gerarchico di dio torturava in sordina le menti e i cuori del santo istituto, dove quella temeraria affermazione che dio e la morte fossero le due facce della stessa medaglia aveva cominciato a esser considerata, più che un’eresia, un abominevole sacrilegio.”; perché in fondo il pensiero di dio è tanto più forte quando ci si confronta con la nostra finitezza.
Devo, infine, ammettere che questo romanzo mi ha colpito molto anche per una questione personale. Pochi mesi fa ho avuto un drammatico incidente motociclistico. Mi hanno detto, i medici, che ero pressoché prossimo alla morte. L’ho conosciuta da vicino e mi sono reso conto, ex post, che morire non è così difficile, né drammatico. E, quando si è toccati dal glaciale dito scheletrico della signora delle tenebre, da un lato la si sente addomesticata e dall’altro ci si rende conto che a volte si può essere morti anche se si è biologicamente vivi.
Ed è questo tratto così autentico, a mio avviso, il grande lascito di questo splendido romanzo. La morte è parte della vita e, una volta che la si conosce, non la si teme ma – attraverso l’amore – si vive; sino a che, all’ora segnata sulla tacca del nostro destino, la si troverà alla nostra porta. Non avendo avuto il rimpianto, in punto di morte, “di non aver vissuto”.
P.S. – grazie a Francesca che mi ha donato questo libro.
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