Letteratura
L’autofiction nel romanzo di Veronica Raimo
Veronica Raimo – Niente di vero – Einaudi 2021
I libri si parlano. Una Berlino punk alternativa e creativa e alcuni cenni ai trulli e alla Puglia, luogo di vacanza della Veronica del romanzo, fanno da pendant coi due luoghi iconici del libro di Desiati appena finito. (urly.it/3nv-j)
Questo di Veronica Raimo sembra raccogliere semplicemente le memorie della sua vita, autofiction si chiama adesso. La narrazione si apre con un tentativo di fuga della protagonista dall’adolescenza asfittica o dalla trappola familiare e con la prospezione nel mondo dei pari (l’amico con l’attichetto a Monteverde ereditato dalla nonna e l’auticertificazione di sottoproletariato) ovvero nel giro degli amici di una Roma che a tutta prima sembra uscita da un medio sceneggiato Rai o agogna ad entrarci, e l’immancabile romanesco…«Me spiace, ma me mannavi ar gabbio». «Ahò, ma te rendi conto»… e il ricorso allo slang giovanilista (pogare …) in un tentativo di prosa svelta e umoristica con lepidezze che sono quelle che sono tra tono svagato e creativo, e battutine che a volte hanno le micce bagnate e non deflagrano. Ma quello che sembrava un romanzo di formazione ripiega subito nella raccolta, man mano che emergono, di semplici memorie autobiografiche. Niente di strutturato insomma come reputavo all’esordio, ossia la narrazione consecutiva di una fuga dalle manie se non delle aberrazioni mentali del ceto medio evitando se possibile la riproposizione di vecchi merletti. (Il padre che ripete il tormentone “Siamo arrivati al paradosso”, “Poi vediamo” si incanala fatalmente sulla scia di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg).
Sulle autobiografie più o meno contraffatte siamo stati avvisati già da Italo Svevo che diceva della sua opera: «È un’autobiografia, ma non è la mia». E qui il titolo mette subito le mani avanti con un gioco di parole Niente di vero (nica), ma che in verità è un “Tutto di Veronica” perché, di contro, forte è il rilancio e la riorganizzazione del momento autobiografico secondo gli stilemi dell’autofiction, come si chiama oggi – alla Annie Ernaux viene suggerito nei giudizi allegati in fondo al libro -, e di tanta altra narrativa (penso anche al Works di Trevisan), ossia il forte impulso a raccontare tutto di sé senza apparenti filtri o negandosi ogni proposito di lasciare qualcosa nella penna. Veronica si chiama la voce narrante e Christian si chiama il fratello sia nella vita che nella pagina, avendo l’autrice rinunciando all’invenzione del personaggio-schermo, come il Bardamu di Céline, il Barbino di Busi o il Gonzalo di Gadda… E perciò ecco la sbobinatura del tutto-Veronica: il nonno ciabattino, gli altri nonni pugliesi, il fratello che si chiama Christian e che ospita due profughi in casa (come ci accadde di leggere veramente su Facebook), la malattia del babbo, la carenza di tette, il reuma articolare acuto, gli amori e le scopate, l’assenza di vocazione alla maternità, le mestruazioni, l’aborto, la stitichezza, le intricate storie d’amicizia femminili, la liaison con A. che resta nell’ombra, i soggiorni a Berlino, il viaggio in Messico ecc., con tanta voglia sottocutanea di stendere tutti i panni in piazza. Storie intime non trasfigurate, prese di peso dalla realtà sembra a tutta prima e refertate con una scrittura referenziale – nulla della lussureggiante prosa di Daniela Ranieri (urly.it/3nrz8) e del suo alto amperaggio espressivo (mentre qui abbiamo repertato un imbarazzante «temo sempre le ritorsioni del karma») – scrittura immediata, del tutto rinunciataria a proiezioni mitopoietiche, ma a bassa tensione narrativa, con una narrazione tutta allineata sulla direttrice di un diarismo pressante che sbobina fatti su fatti e li “incarta” per noi ipocriti, è proprio il caso di dire, lettori…
Ora, siano fatti veri come sembrano o meno, non importa. La questione è il trattamento letterario del fatto. Flaubert nelle Memorie di un pazzo annotava «La mia vita non sono i fatti, la mia vita è un pensiero». Da lettori un po’ rétro siamo persuasi che il romanzo non è una sequela di fatti. Sono i fatti più un pensiero, uno stile, una espressione forte, una idea di mondo, una visione, o più semplicemente una sezione di realtà attraversata da un temperamento. Che qui stentano ad emergere. C’è invece un’emulsione di stati d’animo, un’attitudine alla confessione secondo una linea incerta tra verità e “romanzo”, sincerità e dissimulazione, confessione e finzione, depistaggi e incanalamenti, procedure aventi forse la funzione di una seduta psicoanalitica tutta personale con flusso di coscienza incorporato, puntando al presupposto o speranza che la mera esposizione dei fatti si innalzi a metafora, a rappresentazione collettiva, a letteratura. Sempre che il gioco riesca. È la vague, questa, corrente nella letteratura di oggi, che sulla scia di Carrère, Ernaux, Didion, Trevisan ecc indirizza la nostra stagione letteraria all’autofiction si diceva, alla sussunzione sfrontata sulla pagina di materiale privato grezzo prelevato direttamente dalla propria vita, e che ispira uno stile elocutivo e narrativo molto diffuso. Giudicherà il lettore se il gioco funzioni o meno. Se prendere o lasciare.
Occorre dire, che la scelta di fondo dell’autofiction pone un teorema, ossia che tale procedura, non essendo chi narra Chateaubriand ma un rampollo del ceto medio romano, deve trovare un suo nucleo attrattivo che vada oltre la tensione stucchevole dell’acquisto di un paio di pantaloni di pelle alla Jim Morrison al fine di uncinare il lettore. La soluzione qui trovata sembra quella di stressare fatalmente la pagina verso uno smutandamento sempre più radicale, nel presupposto che più riveli e più raggiungi l’effetto “finzionale” del romanzo. E che forse, non ne sono sicuro, va a favore della strategia testuale di questo lavoro. Se infatti assumiamo che la spregiudicatezza e l’immediatezza siano buon indice di salute letteraria, o siano il mezzo privilegiato per raggiungere l’effetto di realtà, vediamo che tale esposizione di fatti sempre più spinta, senza freni e senza veli, diventa in ultimo per così dire spietata verso i propri intimi, e in alcuni tratti anche irriverente, irridente e parodica, come il bolo rigurgitato dalla mamma, avvolto in fazzolettini e messo in borsetta, che sarà punk, come dice la voce narrante, ma insomma, o nell’episodio fantozziano della macchina aziendale del padre, fracassata dal cancello automatico con conseguenze gravi sulla pace familiare e la rinuncia alle vacanze estive a Ventotene, o in quell’altro dell’esibizionista che si denuda su uno scoglio con un’erezione in corso e si pone accanto alla protagonista la quale non sapendo come uscire d’impaccio dalla situazione si mette in collegamento telefonico vivavoce col fratello politico Christian Raimo sortendo l’effetto sperato: «Dopo nemmeno cinque minuti di politiche culturali nella periferia nord-est di Roma, il ragazzo si è smosciato».
Ma nonostante questi tratti, spiazzanti i nostri pregiudizi di ipocriti lettori, ne viene fuori un’opera esibente una serie di fatti propri alla lunga piuttosto anodina nonostante l’aspirazione, che a me è sembrata forzata, all’umorismo. Ci ha riso su però Zerocalcare e ce lo fa sapere nella fascetta di copertina come promo pubblicitario o come viatico per lettori renitenti o sospettosi. Sarà un amico di famiglia che avrà letto il libro prima che uscisse e generosamente si spende?… oppure un’atroce iniziativa di marketing di prammatica perché anche un altro libro Einaudi, quello di Vanni Santoni, è uscito con il timbro di una battuta-sigillo di Nicola Lagioia? Segnalo un fatto che sembra un preciso indirizzo promo-editoriale secondo me controproducente perché denuncia un’aria di conventicola o di scuderia, fate vobis.
C’è un ultimo tratto che va segnalato e su cui l’autrice sembra puntare: l’approdo alla scrittura come testimonianza della fuoriuscita dall’anonimato sociale. Vi sono continui accenni. «Quando in una famiglia nasce uno scrittore» è l’incipit compiaciuto cui segue «una volta, mentre ero in Sardegna per presentare il mio romanzo» e poi, «mentre scrivevo questo libro» … «aveva letto tutti i miei libri»… «intravide subito in me il talento letterario, gli bastava uno sguardo per riconoscere una vera scrittrice»… «io e mio fratello non siamo mai diventati scrittori di successo perché usiamo troppe parolacce»… «fino a quel momento il fatto che fossimo tutti e due degli scrittori»… «una scrittrice deve sentire dentro il fuoco sacro fin dall’infanzia»… «il nostro narcisismo da scrittori»…
Ecco. Il nostro narcisismo da scrittori…
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Finalisti PREMIO STREGA 2022
A fianco di ogni libro troverete il link alla sua recinzione (recingere con un testo un altro testo) su questa rivista man mano che pubblicherò le recinzioni dei 12 romanzi finalisti.
I finalisti sono:
1. Marco Amerighi con “Randagi” (ed. Bollati Boringhieri), presentato da Silvia Ballestra. urly.it/3ny2q
2. Fabio Bacà con “Nova” (ed. Adelphi), presentato da Diego De Silva. urly.it/3nypf
3. Alessandro Bertante con “Mordi e fuggi” (ed. Baldini+Castoldi), presentato da Luca Doninelli. urly.it/3nvnf
4. Alessandra Carati con “E poi saremo salvi” (ed. Mondadori), presentato da Andrea Vitali. urly.it/3p5zh
5. Mario Desiati con “Spatriati” (ed. Einaudi), presentato da Alessandro Piperno. urly.it/3nv-j
6. Veronica Galletta con “Nina sull’argine” (ed. minimum fax), presentato da Gianluca Lioni.
7. Jana Karšaiová con “Divorzio di velluto” (ed. Feltrinelli), presentato da Gad Lerner. urly.it/3nx4h
8. Marino Magliani con “Il cannocchiale del tenente Dumont” (ed. L’Orma), presentato da Giuseppe Conte. urly.it/3n-nv
9. Davide Orecchio con “Storia aperta” (ed. Bompiani), presentato da Martina Testa. urly.it/3p34g
10. Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij” (ed. Rizzoli), presentato da Renata Colorni. urly.it/3nzhn
11.Veronica Raimo con “Niente di vero” (ed. Einaudi), presentato da Domenico Procacci. urly.it/3nsnm
12. Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (ed. Ponte alle Grazie), presentato da Loredana Lipperini. urly.it/3nrz8
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