Letteratura

L’assalto di Donnarumma

3 Agosto 2021

L’interesse di Ottiero Ottieri (Roma 1924-Milano 2002) per la psicanalisi si coniugava con quello per la sociologia, ed entrambi animarono la sua produzione letteraria a partire dagli anni ’50, anni di vivace sviluppo industriale e di apertura verso nuovi modelli interpretativi dei comportamenti individuali all’interno della collettività. Assunto all’Olivetti nel 1953, in un ambiente professionale sensibile al contributo intellettuale di altri nomi di rilievo del mondo della cultura italiana (Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini), venne poi inviato a Pozzuoli per seguire la creazione di un nuovo e avveniristico stabilimento, con l’incarico di selezionare il personale. Durante il periodo trascorso al Sud approfondì le tematiche relative al mondo del lavoro, all’alienazione operaia, allo  sfruttamento capitalistico. Ne trassero linfa creativa due romanzi che diedero avvio al filone della cosiddetta “letteratura industriale”: Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto(1959), quest’ultimo pubblicato da Bompiani, dopo un rifiuto dell’Einaudi, determinato dal giudizio negativo di Calvino. Riproposto da Garzanti in varie edizioni a partire dal 1990, il romanzo rimane il più celebre e celebrato tra i molti usciti dalla penna dell’autore, non solo per le problematiche relative al contrasto tra il progresso tecnico ed economico del nord e l’arretratezza culturale del meridione, ma anche per lo stile spaziante tra il resoconto cronachistico, l’introspezione psicologica e la critica politico-ideologica.

Scritto in forma autobiografica, narra l’esperienza di uno psicologo delegato da una grande azienda settentrionale a scegliere il personale da assumere in una nuova filiale impiantata in Campania, vagliando quarantamila domande presentate da aspiranti diversissimi: contadini analfabeti, infermieri, attori di varietà, donne di fatica, “pescatori, baristi, bagnini, custodi dei Riformatori”: tutti motivati dal miraggio di ottenere un’occupazione stabile e remunerata. Scisso tra il dovere di ottemperare alle esigenze dell’industria per cui lavora e la crudele realtà di un modello imprenditoriale indifferente ai destini individuali delle maestranze, oscillante ideologicamente ed emotivamente tra pietas e irritazione di fronte all’eterogeneità delle situazioni esaminate, il protagonista redige un diario della sua tormentosa vicenda professionale, che iniziata un lunedì di marzo, si protrae fino ad autunno inoltrato. “Sono entrato per la prima volta, all’improvviso, nel laboratorio psicotecnico. C’erano i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei test per osservarmi”.

La scelta degli uomini e delle donne da impiegare è condizionata da rigide regole imposte dall’azienda, e lascia poco spazio di intervento al selezionatore: di ogni candidato si valutano le attitudini mentali e fisiche, senza tener conto delle sue condizioni economiche e familiari. Sottoposti a prove scritte e di coordinazione manuale, gli esaminandi sono in difficoltà nei colloqui e nei test verbali, a disagio con l’italiano ufficiale che risulta loro estraneo. “Mi scusate, dottore. Ma voi siete il pizzicologo? Dicono che quando vi avvicinate voi, capite se uno è intelligente o scemo”. Tentano ogni strada per ottenere il posto, dalla raccomandazione alla corruzione, dalle minacce alla supplica, dall’ossequio alla rivolta: “Io sono alfabeta, lì dentro c’è scritto. Io sono alfabeta con sette figli, ma mi piace di faticare, devo mangiare. Io vi servo più di tutti gli altri”. Il funzionario riflette su se stesso e sulla sua mansione, teso tra solidarietà e rabbia, compassione e sospetto: “Non è facile avere tutta la coscienza tranquilla”, riflette assolvendosi, consapevole di dover decidere tra le reali abilità e “una graduatoria del bisogno”.

Lo stabilimento diventa insieme moloch e totem, a cui sacrificare la propria esistenza e individualità, la coscienza e il rispetto di sé, in omaggio alle esigenze capitalistiche della produzione: “Sulla collina sopra il paese, esce, sorge la fabbrica: come un castello orizzontale di vetro, fluorescente di luci fredde. C’è il neon dietro i vetri. Gli abitanti della costa, i pescatori possono vederla così irraggiungibile da ogni punto del golfo”. Visitato quotidianamente nei vari reparti da “turisti stranieri, giornalisti, ministri, sociologi e architetti” (anche un disincantato e idolatrato Eduardo Dee Filippo rende omaggio al personale e alle macchine), diventa il fiore all’occhiello della lungimirante generosità dell’imprenditoria settentrionale nei riguardi del Sud. Che tuttavia nei suoi abitanti e nelle istituzioni rimane recalcitrante, sospettoso, e sostanzialmente inadeguato alle aspettative padronali. “Questo stabilimento è venuto a sollevare le nostre miserie. È anche un’opera di misericordia”, afferma un prete nel corso di una cerimonia, sorvolando sui turni massacranti, sull’alienazione prodotta dai movimenti ripetitivi, sull’assenza di rapporti interpersonali.

I candidati si chiamano Accettura, Bonocore, Santoro, Rubino, Bellomo, Papaleo, Straniero, e appunto Donnarumma.  Antonio Donnarumma fa la sua comparsa esattamente a metà romanzo, prototipo del disoccupato meridionale degli anni ’60, privo di qualifiche ma convinto del suo diritto naturale al lavoro: rifiuta le trafile burocratiche e il rispetto delle regole, contesta le gerarchie, diffida della carta stampata, è pronto a provocare con la violenza chi gli nega attenzione e ascolto: “Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche fisicamente risponde a uno scontato cliché: “Aveva il petto quadrato in un maglione, i capelli grigi a spazzola, gli occhi duri… con la faccia atona e regolare sotto la fronte bassa”.

L’indagine sociologica dello scrittore-psicologo Ottieri ammette tutti i propri pregiudizi nei confronti dell’oscurantismo dei meridionali, ritenuti pigri, immaginosi, disorganizzati, sensuali, svogliati, scialacquatori, superstiziosi, intellettualmente sterili: “tutti i luoghi comuni intorno al mezzogiorno mi tornano a galla, veri”. Ma l’industrializzazione forzata è considerata l’unica possibilità di sviluppo e salvezza, contro il male atavico della disoccupazione, della miseria, dell’ignoranza: “In fabbrica miglioriamo, loro e noi. Ci comprendiamo e ci assomigliamo, uniti dalla stessa produzione, cioè dalla stessa sorte. Quando si sta in officina ognuno al proprio posto, si smorzano i loro fuochi pirotecnici e le nostre sciocche, fredde presunzioni si riscaldano. Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi del carattere”.

Quando le assunzioni vengono infine completate e il selezionatore, esaurito il suo compito, può tornare al nord, rimane l’inquietudine degli esclusi dal reclutamento e dal progresso, una rabbia feroce che si esprime in piccoli sabotaggi e infantili attentati, minacce verbali, telefonate anonime e persino tentati suicidi.

Giuseppe Montesano, nella sua analitica e appassionata prefazione al volume garzantiano, afferma che “c’è qualcosa di oscuro, in Donnarumma all’assalto, una sorta di sordo brontolio minaccioso che non esplode mai in tempesta”, ed è il contrasto insanabile tra l’irosa sfiducia dei disoccupati che aspirano a un posto di lavoro e “il funzionario che ha fede nella fabbrica-modello, nella razionalità di un nuovo umanesimo e nell’efficacia della psicologia industriale”. Nord contro Sud, specializzazione contro dequalificazione, città contro campagna, progresso contro arretratezza. “Lo psicologo sa che il suo lavoro è «immorale» perché è una difesa contro il dolore altrui, e perché dove la Storia ha piegato gli uomini non può esserci neutralità”, scrive ancora Montesano. Tale dilemma, se dopo settant’anni non riguarda più il nostro meridione, rimane invece pressante nel baratro che divide l’Occidente iper-sviluppato e le zone del mondo tuttora deformate dalla povertà e dalla sofferenza. L’utopia di un progresso giusto ed egualitario grazie alla crescita tecnologica e finanziaria, continua a sopravvivere solo nel limbo dell’irrealtà.

 

OTTIERO OTTIERI, DONNARUMMA ALL’ASSALTO – GARZANTI, MILANO 2014, p. 262

Prefazione di Giuseppe Montesano

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