Letteratura
L’arte della vita
Zygmunt Bauman pone in epigrafe al suo saggio, L’arte della vita, una frase , tratta dal De vita beata di Seneca:tutti vogliono vivere felici, ma hanno l’occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita. Seneca sapeva che rendere felice l’esistenza umana è un’impresa difficile. E oggi non sembra che le cose siano molto cambiate: questo è il senso del libro di Bauman. Il denaro non dà la felicità; quello che compriamo nei negozi non dà la felicità; la libertà è sempre un atto di responsabilità, una costrizione a operare una scelta e scegliere significa sempre rinunciare a qualcosa: questo non dà la felicità; l’amore e il desiderio si concentrano sempre su qualcosa che ancora non è, i loro oggetti sono tutti nel futuro … inaccessibile ai sensi e non indagabile da parte della ragione.
Va notato, inoltre, che una parte consistente della nostra vita – e, dunque, della nostra ricerca della felicità – si svolge nel mondo del lavoro, di cui Bauman fornisce un’analisi amara. L’idea di dare ordine alla vita, di organizzarla, vuol dire considerare il caos un male da sconfiggere. Quindi, ogni forma di management orientato al controllo del disordine è sempre stato considerato un paradigma vincente. Tuttavia la storia dell’economia sembra dimostrare che il managerialismo è un modello verticistico che favorisce solo chi è al potere e schiaccia i dipendenti, trasformando le fabbriche in giganteschi ingranaggi nei quali gli operai sono ridotti a mere estensioni dei nastri trasportatori. Oggi, in verità, il mondo delle imprese tende verso organizzazioni che danno più spazio agli aspetti vitali dell’esperienza, valorizzando l’immediatezza, la soggettività, lo spirito ludico. Ne derivano apparenti crescite in termini di libertà, creatività, forme di autogestione e di autoaffermazione nei processi di lavoro, che renderebbero i dipendenti più autonomi e più soddisfatti nel vedere umanizzata la loro attività. Va, però, considerato il fatto che nell’era dei telefoni cellulari e dei computer portatili tale condizione di libertà è solo, come si è detto, apparente: non ci sono più attenuanti per la propria irreperibilità. Essere costantemente agli ordini dei propri capi, familiari, amici, non è più solo una possibilità, ma un dovere, anzi, una spinta interiore. Si arriva a un paradosso: ora che i dipendenti sono più autonomi e si autogestiscono, molte aree del loro sé, della loro dimensione privata e personale, si aprono allo sfruttamento. La nuova organizzazione più democratica del lavoro, nei fatti è, invece, pronta a divorare tempo, energie, emozioni dei dipendenti, ai quali si arriva a chiedere – o, meglio, essi stessi sentono quasi l’obbligo di dare – un’appassionata dedizione, sollecitata da uno stato di allarme e di emergenza artificialmente montato per accrescere la performatività di coloro che fanno parte del sistema-azienda.
Il dipendente ha la percezione che la strategia delle nuove organizzazioni d’impresa sia il “codice dell’amore”: non contano più i contratti scritti, ma le continue dimostrazioni di dedizione assoluta, di abnegazione, utili a meritarsi la simpatia del capo, come accade in un rapporto in cui ci si adopera per ottenere l’affetto del partner. Essere amati, però, è qualcosa che non sarà mai confermato a sufficienza. E la condizione per essere amati è l’offerta costante di prove sempre nuove della propria capacità di riuscire, di essere sempre un passo avanti, competitivi, rispetto ai concorrenti anche solo potenziali. E questa è una vita emozionante? No. È una vita logorante. Sembra davvero una presa in giro il bel parlare di sinergie e spirito collaborativo. Il codice dell’amore è esclusivista: non si può collaborare con i/le potenziali amanti del proprio partner! Il mondo del lavoro oggi è questo: instabilità, sospetto reciproco, ansia.
Può l’essere umano raggiungere la felicità in queste condizioni?
Secondo Bauman, l’incertezza è parte strutturale dell’esistenza, che non concede nulla senza dura fatica. E ognuno di noi è disposto allo sforzo incessante pur di costruire la propria felicità. Ma se la dimensione del lavoro è diventata pervasiva, tanto da annullare desideri, è ancora possibile immaginare la felicità? Rendere l’uomo un essere condannato a esistere per la mera sopravvivenza e ridurlo al solo “dum spiro, spero” può davvero bastare? Siamo disposti ad accontentarci del “finché c’è vita c’è speranza”?
No, l’uomo è fatto per credere che da un malchiuso portone – direbbe Montale – si possa vedere il giallo dei limoni, si possano sentire le trombe d’oro della solarità.
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