Cina

L’arte della resistenza di Wang Xiaobo

27 Settembre 2017

La prima volta che sento parlare di Wang Xiaobo mi trovo su un autobus. È l’agosto del 2013 e l’automezzo si arrampica a fatica per le strade scalcinate del Marocco. La temperatura esterna segna 42°C, quella interna poco più. L’autista del grand-taxi su cui viaggio fa girare da alcune ore nelle casse lo stesso cd di musica melodica araba a volume altissimo. Provato dall’altitudine, dal caldo e dalle ondate di habibi provenienti dagli altoparlanti, intraprendo una conversazione con la persona che siede al mio fianco. Dice di essere di Shanghai, e superati i convenevoli inizia a parlarmi con entusiasmo e disinvoltura di letteratura europea e sudamericana. Conosce a memoria Kafka, Hesse, Camus, Calvino, Borges e tutti quelli che c’è da conoscere. Sono sbalordito. Le chiedo di consigliarmi qualcuno del suo paese. Su un miliardo di cinesi al mondo devono esserci alcune migliaia di scrittori famosi, e io ne conosco solo uno: Mo Yan. Una media vergognosa. Lei non ci pensa un momento e scandisce tre semplici fonemi: Wang–Xiao–bo. Dice che è un reietto, ma che per lei è più importante di Confucio e Mao messi assieme. Mi sarebbe bastato anche meno.

Ad un deserto e qualche settimana di distanza mi ritrovo in Italia a spulciare gli appunti presi durante il viaggio. Il mio sguardo si sofferma su quel nome scritto da un sedile traballante e lo sottopongo ad una breve ricerca su internet. La pagina a lui dedicata su Wikipedia è disponibile in quattro lingue e alcuni dei suoi libri sono stati pubblicati negli Stati Uniti ed in Francia. Ordino subito le mia copie.

Dalle pagine dei romanzi di Wang Xiaobo emerge una quantità di cose incredibili, ma soprattutto emergono scrittori, pittori senza licenza ed agenti di polizia. Il mondo secondo Wang si divide in queste tre categorie. Se non fai parte di nessuna di esse, non sei nessuno.

 

 

Pechino, febbraio 2016. In copertina: Pechino, novembre 2014

 

Sprofondo nella biografia dell’autore ed apprendo dei tre anni trascorsi dal giovane Wang nella provincia rurale dello Yunnan, presso un centro di “rusticazione forzata” di ispirazione maoista, esperienza da cui egli trarrà ispirazione per la sua novella più nota, L’Età dell’oro. Scopro anche che Xiaobo in lingua cinese significa “piccola onda”, nome con accezione rivoluzionaria scelto per lui dal padre, un accademico in lotta con gli apparati del partito comunista.

Il quadro si fa più chairo. Wang Xiaobo è essenzialmente un partigiano cinese nato a Pechino all’inizio degli anni ’50 e amato dal suo pubblico per la sua vena provocatrice, oltre che per una certa ossessione verso il sesso, codificato come motore di ogni forma di resistenza. Wang è anche un narratore di grandissimo talento, capace di un’ironia a volte ruvida, altre finissima, ma sempre attento a non allontanarsi dai confini di una poesia profonda.

A quattro anni di distanza da quel viaggio, esce in questi giorni in Italia “Il Significato dell’Arte” (Oèdipus Edizioni), la prima opera di Wang Xiaobo disponibile nel nostro paese. La traduzione è stata farraginosa, lunga, traditrice, portata avanti da chi scrive principalmente dall’inglese, con incursioni nell’originale attraverso connessioni bizzose ed incomprensioni fra continenti. Il risultato è un racconto insolito che spero possa aprire uno spiraglio nel nostro paese verso la vorticosa galassia di questo autore e verso una scrittura che può tutto, tranne che lasciarci indifferenti.

 

[photo credits: Jonathan Kos-Read, Alexander Mueller]

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