Letteratura

L’anno che a Roma fu due volte Natale: intervista a Roberto Venturini

3 Febbraio 2021

Torvaianica inverno. Nello spazio sospeso del Villaggio Tognazzi, che ha conosciuto i fasti degli anni d’oro del turismo “vip” del litorale romano, si agitano le vite di Alfreda e Marco, madre e figlio, intrappolati in una routine fatta di gesti quotidiani che si sgretolano sotto l’avanzare della demenza senile della donna e di tentativi di una normalità decadente. Una casa piena di oggetti, pietrificati dal tempo, ricordi di un passato felice ricostruito nella memoria con i toni di una felicità patinata, il peso di un lutto familiare mai del tutto vissuto e la presenza, sempre più invadente, di una strana ospite notturna. Alfreda infatti soffre di paralisi del sonno durante le quali le appare una Sandra Mondaini triste e muta, che sembra chiederle aiuto per potersi ricongiungere con il marito sepolto lontano da lei. La sua sofferenza appare bruciante ad Alfreda che ha perso il marito in mare, durante una lamparata, senza che il corpo venisse mai ritrovato, tanto che per consentire al figlio, preoccupato di un possibile sfratto a causa della situazione di degrado della casa, di sgombrare il villino dai rifiuti, chiede in cambio la trafugazione della salma di Raimondo e il suo trasferimento a Milano, a fianco di quella di Sandra.

Con il suo secondo romanzo L’anno che a Roma fu due volte Natale, Roberto Venturini, già vincitore del premio Bagutta con il suo libro d’esordio Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un quadro di Schiele appeso in camera, arriva a toccare, senza compiacimento o abbandono a sguardi paternalisticamente accondiscendenti, i margini fisici, mentali, sociali, di una società stanca, ma che ancora crede nella possibilità di una redenzione, fosse anche attraverso gesti apparentemente folli. I personaggi, vivissimi, quasi palpabili, si muovono in uno scenario decadente, descritto però con affetto, attraverso la memoria di un passato fatto di sogni e speranze su cui si è accumulata la sabbia e la polvere del tempo. Un romanzo maturo, che non dimentica la freschezza di quel mondo “pop”, del linguaggio di tutti i giorni degli esordi, ma li coniuga con una ricercatezza formale attenta, misurata, mai di troppo.

L’anno in cui a Roma fu due volte Natale ci porta altrove, ma è un altrove dietro l’angolo, ci porta in un mondo onirico, ma – a tratti – il sogno si rivela un incubo, ci fa sorridere e piangere, inquieta e dona speranza, impone la fatica sana della lettura attenta, ci solleva dalle urgenze quotidiane.

Ne abbiamo parlato con l’autore, in una chiacchierata che esplora i retroscena del libro a pochi giorni dalla sua uscita

“L’anno che a Roma fu due volte Natale” è il tuo secondo romanzo, per certi versi molto differente rispetto a “Tutte le ragazze di una certa cultura…” – anche se i rimandi al mondo televisivo, pubblicitario e “pop” in senso ampio rappresentano un importante trait d’union stilistico. Cambia lo sguardo, l’oggetto della narrazione, si modifica la struttura, più complessa e articolata su piani differenti, rimane la penna riconoscibile, con una sua voce forte, si diversifica il linguaggio… Ti va di raccontarci un po’ la genesi del romanzo? Quale idea ti ha mosso? Quali stimoli ti hanno portato a Torvaianica?

Cosa mi ha portato a scrivere questa storia familiare? In realtà sono stato mosso da due ragioni: la prima – me ne vergogno anche un po’ – è l’attenzione ossessiva per un fatto che mi ha colpito particolarmente, ossia il ratto della salma di Mike Buongiorno. Mi chiedevo durante una serata con un’amica, quale possa essere la ragione che spinga una persona a colpire un atto così orrendo, ma anche così simbolico. A parte le motivazioni della ricettazione o del ricatto, mi sono chiesto quale fosse la ragione profonda di un’azione così orribile. Contestualmente avevo già questa esigenza di raccontare una storia familiare, quindi le due esigenze in questo senso hanno raggiunto una convergenza ed è nato questo romanzo. Ambientato a Torvaianica perché? Per prima cosa perché è un posto che conosco bene. Mio nonno comprò una casa là negli anni Sessanta e ci ho passato la mia infanzia, quindi è una località dell’anima per me. Poi questo luogo condivide con i personaggi un aspetto: sia Torvaianica che i personaggi sono stati vittime di un’occasione persa. Torvaianica alla fine degli anni Cinquanta, quando Ugo Tognazzi comprò il primo appezzamento di terreno, è diventata una vera e propria costola della Dolce Vita. Il jet set romano si radunava lì, poi però con il passare del tempo Torvaianica ha perso questa grande occasione, quel ruolo di spazio d’elezione per le vacanze estive dei romani, come può essere oggi Ostia o Fregene. È uno spazio di rimpianto…

Il tuo romanzo d’esordio trasmetteva – pur nella complessità di struttura – una certa spontaneità, quella di chi ha lavorato per rendere “facile” la narrazione, come se si fosse trattato di un’ispirazione del momento, passata dalla testa alla penna. In questo romanzo invece la struttura occupa il suo spazio: spazi, personaggi, eventi sono articolati su più piani (percettivi, temporali, spaziali appunto), fra mondo tangibile e universo percepito, non solo nelle allucinazioni notturne di Alfreda, ma anche nella sensibilità di Marco e dei suoi co protagonisti. Ti va di accompagnarci nell’officina dell’autore? Come hai lavorato alla stesura?

Il salto da Tutte le ragazze è stato prima di tutto passare dalla prima alla terza persona. La voce resta riconoscibile, ma cambia il tono. Per la struttura ho avuto bisogno di un impianto più tradizionale. Drammaturgicamente ho usato i tre atti e il finale, per avere una base solida, in quanto il romanzo ha una componente di grottesco e surreale e quindi, per rendere la vicenda credibile, ho dovuto poggiare la narrazione su basi solide, perché, parafrasando il marchese del Grillo “Quando si scherza bisogna essere seri”. Costruire questa struttura mi ha portato a effettuare scarti, aprendo finestre continue sul presente degradante e il passato rassicurante dei ricordi dei protagonisti.

I margini sono al centro di questo romanzo: margine spaziale (il litorale un tempo sede del jet set e ora decadente) personaggi le cui vite si giocano in un delicato equilibrio fra legalità e illegalità, fra normalità e follia, mondi che si stanno allontanando dal nostro quotidiano (come quello dei pescatori). Come hai fatto a descrivere così bene, tanto da farci “respirare quell’aria”, questo margine?

Io sono una classe ‘83 quindi ricordo molto bene la crisi del ceto medio, questo fenomeno che ha quasi spazzato via la serenità economica di svariati nuclei familiari. Per cui ho cercato di circoscrivere a questo scenario e ai miei ricordi personali per raccontare le atmosfere di quel luogo che conosco molto bene e che ho frequentato paradossalmente più d’inverno che d’estate.

Il mondo pop ha tanta parte nelle tue narrazioni: dagli oggetti ai riferimenti televisivi – in questo romanzo vero e proprio motore dell’azione in una delle personificazioni più popolari della nostra tv – passando per i linguaggi. Che cos’è per te questo sostrato culturale? Ha a che vedere con la famosa “teoria della nostalgia” di cui, ogni tanto, qualcuno parla? E’ un portato individuale o generazionale?

Questo romanzo ha come tema fondamentale la memoria. La memoria dei protagonisti, ma anche e soprattutto la memoria collettiva. Il nodo narrativo minore, ma importante si gioca sulla salma, simbolo dell’unione coniugale nazional popolare per eccellenza che è Sandra e Raimondo. Le citazioni sulla cultura e subcultura pop anni ‘90 (con scorci anni ‘70) è un mio tic: non mi piace raccontare le emozioni in maniera fredda e distaccata. Mi piace raccontare attraverso le mie emozioni, abbozzando a dei ricordi spesso vicini, a pubblicità, televisione e cinema, propongo al lettore dei segmenti di memoria collettiva affinché queste mie emozioni possano essere recepite dal lettore e in qualche modo fatte sue. Per quanto riguarda la teoria della nostalgia, non la rinnego, ma non ci credo neanche fino in fondo. Mi piace ricordare Jung che dice che il nostalgico pensa di aspirare al passato, ma in realtà aspira al futuro. La nostalgia alimenta la tensione alla ricongiunzione: lo cito perché è uno degli altri temi importanti in questo romanzo.

Chiudo con una domanda lieve…come si vive da “scrittore Venturini” e com’è l’attesa dell’uscita di questo libro?

Eh, come la vive? Da ansioso cronico, quindi con la solita formula che ho utilizzato anche per l’uscita del primo, cioè lo Xanax la mattina e la Sertralina la sera. E poi conservando quella che è probabilmente una mia caratteristica: quella di un disagio colorato, quindi cercando di essere anche molto autoironico…

Roberto Venturini, L’anno che a Roma fu due volte Natale, Sem Edizioni, in libreria dal 4 febbraio

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