Letteratura

L’anarchico pallore di Jules Laforgue

7 Dicembre 2020

Jules Laforgue, nato a Montevideo nel 1860 da una famiglia di origine bretone, morì ventisettenne di tubercolosi a Parigi. In vita fu poco compreso, o comunque sminuito nel suo valore letterario, dai poeti francesi che avevano fatto della trasgressione antiborghese la loro cifra stilistica innovativa. Furono gli americani Ezra Pound e T.S. Eliot, arrivati in Europa ai primi del Novecento, a rivalutare il timido e malinconico cantore dei paesaggi notturni, intuendo la novità insita nel ritmo eterogeneo dei suoi versi e nei timbri inconsueti, ironici o inteneriti, popolareggianti o colti.

L’editore milanese Marco Saya (che azzardo, oggi, pubblicare esclusivamente libri di poesia, curati nella grafica ed eleganti nelle copertine, scommettendo sulla fedeltà di pochi e scelti lettori!) propone ora i suoi Ultimi versi, usciti postumi nel 1890, a cura di Francesca Del Moro con postfazione di Fabio Regattin.

Nelle dieci canzoni che compongono il volume, specialmente ne L’ inverno che viene e in Assolo di Luna, Laforgue si cimentava in uno stile pionieristico, di ampio respiro, musicalmente liberante, ricco di sonorità nitide, richiamandosi in parte al verso lungo di Walt Whitman, che era stato il primo a tradurre in Francia. Attilio Bertolucci, in un articolo del 1986, ne consigliava la lettura agli aspiranti poeti nostrani, indicandola come “un’esperienza tonificante”. Il giovane Jules era consapevolmente orgoglioso di essere un precursore, difficilmente associabile alla produzione coeva dei letterati parigini, secondo quanto scrisse in Simple Agonie alludendo a se stesso: “Venuto troppo presto, ripartì senza scalpore”.

Nella sua appassionata introduzione, Francesca Del Moro – dopo l’accurata ricostruzione biografica – offre al lettore una chiave interpretativa della poesia laforgueiana non solo situandola cronologicamente nel cupo periodo della repressione della Comune, ma anche analizzando la linfa intellettuale di cui si era nutrita, in una cultura allora dominata dal determinismo storico, dall’evoluzionismo darwiniano, dal naturalismo in letteratura e dall’impressionismo in pittura. Un crogiolo di nuove idee e di sperimentazioni formali, in cui Jules Laforgue cercò tenacemente un proprio originale percorso, alimentato da un’angoscia esistenziale acutamente trasformata in elegante e arguto umorismo. Gli interessi scientifici e filosofici lo orientavano verso un pessimismo cosmico che investiva qualsiasi aspetto delle relazioni umane, comprese quelle sessuali. Del proprio ateismo conflittuale, venato da tentazioni misticheggianti e buddistiche, scrisse, appena ventenne: “Credevo. Poi, brusca lacerazione. Due anni di solitudine nelle biblioteche, senza amore, senza amici, la paura della morte. Notti a meditare in un’atmosfera da Sinai”.

Se nelle prime poesie temi prediletti erano la luna, i tramonti, le lacrime, le danze macabre, i simboli religiosi, le maschere imbiancate di vari Pierrot, negli Ultimi versi l’attenzione descrittiva si rivolse alla natura, al mutare delle stagioni, alle feste popolari, ai riti sociali celebrati con polemico sarcasmo, in un eccitato stravolgimento per le illuminazioni offerte dai cinque sensi: suoni e profumi, visioni e parole rincorrentesi in cantilene, sussurri, strepiti: “O gerani diafani, guerreschi sortilegi, / monomani sacrilegi! / Imballaggi, libertinaggi, docce! / O torchi delle vendemmie nelle sere eccezionali! / Corredini spacciati, / Tirsi in fondo alle boscaglie, l’eterna pozione, / trasfusioni, rappresaglie, / pastiglie e purificazioni post-natali, / Angelus! Ci siamo ormai stancati / di disfatte nuziali! di disfatte nuziali!…”, “A braccetto, a braccetto, / invece di rincasare, / che ne dite di andare / a bere un goccetto?”, “No, no! È succhiare la carne di un cuore eletto, / adorare ogni organo infetto, / intravedersi prima che i tessuti vadano in avaria, / come reclusi, affetti da monomania!”, “Sul letto ammucchio biancheria sporca, giornali, / schizzi di moda, foto dozzinali, / tutta la capitale, matrice sociale. / Nessuna intercessione: / non darà alcun frutto, / l’unica soluzione è distruggere tutto”.

Fu soprattutto però nelle scelte formali che si compì la sua volontà anarchica di liberare la poesia dai vincoli che la ancoravano al passato, attraverso la disarticolazione delle strutture metriche tradizionali, l’utilizzo di ipermetri e ipometri, e versi liberi, dilatati fino all’eccessivo alessandrino. Particolarmente meditato fu l’impiego di un ricco ordito sonoro, modulato con rime stravaganti, numerose assonanze e allitterazioni e onomatopee, per evidenziare la sua nuova fede nella musicalità del testo poetico, come esplicitamente dichiarava in Simple Agonie: “Oh! che / della natura divinando l’attimo più solo, / la mia melodia, unica e intera, / salga nella sera / e raddoppi e faccia ciò che può, / e sia sincera, assolo / di singhiozzi, e ricada e riprenda / e muova a compassione, / e riprenda e ricada, / secondo la sua mansione. / Oh! che la mia musica sia / crocifissa come in fotografia, / china sui gomiti, piena di malinconia!” Stilisticamente, le composizioni postume sono caratterizzate da una sintassi paratattica, esclamativa, interrogativa e vocativa, con l’esibizione di un lessico straniante, ricco di neologismi e termini settoriali, in un ritmo franto capace di rompere con le poetiche classiche e le più recenti mode simboliste e parnassiane. “I corni, i corni, i corni – pieni di malinconia!… / pieni di malinconia!… / Se ne vanno mutando tono, / mutando musica e suono, / ton ton, ton ten, ton ton!…”

Laforgue ancora oggi viene considerato come “il maggiore tra i minori” poeti francesi di fine ’800, a motivo della sua scarsa accessibilità, secondo quanto affermava il critico americano Robert Ralph Bolgar: “Le poesie o i racconti di Laforgue […] contengono più novità di quante la mente possa accettare senza uno sforzo consapevole”. Ancora più lodevole, quindi, la decisione di Marco Saya di pubblicare in edizione completa i suoi Ultimi versi nella nuova e originale versione di Francesca Del Moro, la quale in una nota esplicativa (le cui motivazioni vengono ribadite dalla postfazione di Fabio Regattin), si sofferma a illustrare obiettivi e difficoltà del suo lavoro di traduttrice, che ambendo a preservare a ogni costo la struttura del testo originale, ha optato per renderlo attraverso una forma fedelmente mimetica.

 

 

JULES LAFORGUE, ULTIMI VERSI – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2020 – pp. 124

A cura di Francesca Del Moro. Postfazione di Fabio Regattin.

 

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