Letteratura
Laggiù soffia! Laggiù soffia!
Come tutte le epidemie, anche il Covid-19 rivela tristemente la stratificazione sociale culturale ed economica (una volta si sarebbe detto “di classe”) in cui la malattia si diffonde nella società, e anche il modo in cui si percepisce la risposta ad essa in termini di discorso, privato e/o pubblico. E così, anche nei quotidiani o nei siti web, o nei profili privati social, vediamo diversi approcci, anche semantici, alla quarantena: chi ne parla come di “tempo ritrovato“, e chi come di prigione, serrata, blocco, interruzione, (della vita economica, sociale, del profitto, delle relazioni etc) per non parlare dell’uso ovviamente quasi obbligato del lessico militare (coprifuoco, isolamento, attacco, aggressione, stare in trincea, trasmissione), e del virus come nemico (immancabilmente “invisibile”) contro cui combattere, fronteggiarsi, tener testa etc, stare in prima linea, cadere sul campo etc .
Il Decameron di Giovanni Boccaccio è un libro molto citato (soprattutto in questo tempo) e poco letto, come quasi tutti i classici del resto; ma per lo più chi ha fatto la scuola superiore sa che è formato da cento novelle narrate da un gruppo di giovani benestanti, che hanno potuto vivere insieme in una villa di Fiesole al tempo della peste del 1348. Indipendentemente dalla veridicità del testo letterario, è abbastanza chiaro il suo contesto, di come, cioè, la peste si accanì soprattutto nelle città affollate, colpendo indifferentemente ceti deboli e ricchi soprattutto urbani e meno coloro che vivevano in un relativo isolamento, vuoi per ragioni geografiche (campagne), vuoi economiche (ceti benestanti per lo più agrari), vuoi, come accade nella storia, per caso.
Ma al di là di questi aspetti storici, che potrebbero facilmente essere scorretti o approssimativi (ho provato a vedere on line i libri sulla Peste nera, e ho notato che non sono così tanti, tranne quelli specialistici di carattere epidemiologico), si può certo affermare che un conto è passare una «quarantena» in un isolamento confortato da spazi ampi e ariosi, in un relativo agio economico ed esistenziale, con possibilità di abitare il tempo tra letture, visioni di film, ascolto o in altre confortevoli condizioni, che lo rendano certo faticoso ma non catastrofico, un altro conto è viverla in condizioni più disperanti, come sono costretti a fare quanti per ragioni di censo, di contingenze della vita, di solitudine, di malattia pregressa, di isolamento o sovraffollamento domestico, di scarsa possibilità di fruire del tempo per sé (prima ancora che del lusso di saperne far buon uso in termini di cura di sé) si trovano a vivere in condizioni via via più disagevoli, quando non addirittura disperate (e qui ometto le tragiche conseguenze sociali che ne discendono, ma che si possono facilmente intuire).
Capisco bene il tentativo di valorizzare il sacrificio di questo tempo sequestrato (per motivi sacrosanti, sia ben chiaro) con il richiamo ad una sorta di utopia intellettuale ruralista (con annesse foto satellitari che illustrano l’indubbia rarefazione dell’inquinamento nelle aree colpite dal virus), ma occorre mettersi nei panni delle persone per le quali esso significa niente lavoro, niente guadagno, niente o troppa relazione, crisi familiare, ansia, depressione ingestibile etc. etc.
L’epidemia, mi dice Tiziana, pare essere sistemica, aggredisce l’intero organismo, accanendosi sopratutto sui polmoni, ma non colpendo solo essi. E così, del pari, è sistemico il suo effetto dirompente al livello sociale, economico, politico, dell’esistenza di moltitudini di esseri umani.
Quando si parla e si scrive in maniera empirica, come io faccio talvolta sopra questo blog, ma come vedo sempre più spesso fare molti altri (pare che il genere letterario diaristico stia tornando in auge), occorre però sempre tenere conto dell’orizzonte limitato del proprio punto di osservazione. Raramente si riesce a ricapitolare in maniera universale, nella propria scrittura, la condizione di moltitudini. Però almeno serve, scrivere un diario, per trovare conforto, e trovare parole, per sé ed altri (almeno per quell’ altro che noi stessi siamo).
Eugenio Borgna, nel suo prezioso libro del 2016, L’indicibile tenerezza, scrive: «In alcune sue belle pagine Ingeborg Bachmann ricorda come Simone Weil abbia fatto rientrare nella sventura il fatto che gli operai non sappiano parlarne, e, quando ne parlano, si servano di frasi fatte, che prendono a prestito da chi non è operaio» (p. 85). Si riferisce all’esperienza di sventura (malheur) relativa alla condizione operaia degli anni Trenta, di cui la giovane intellettuale aveva voluto fare esperienza. Ma, più in generale, potrebbe riferirsi a qualunque condizione di disgrazia (il sostantivo francese ha una difficile traducibilità univoca in italiano). Spesso chi la vive non ha le parole per parlarne, per descriverla in tutta la sua intensità e qualità antropologica. Insieme singolarità ed esemplarità. Ecco perché non bisogna meravigliarsi del fatto che molti, moltissimi, che non hanno gli strumenti per descrivere la loro condizione attuale di disperazione non trovino altre parole che quelle prese in prestito dalle frasi fatte dell’ hate speech dei social, o della invettiva che una volta si sarebbe detta da osteria.
Eppure molto spesso sono proprio loro a stare peggio, di quelli almeno che non dispongono del conforto, se non di una libreria e di un divano, almeno del ricordo di quando potevano leggere in tranquillità.
Beati quelli che riescono a farlo. Almeno per me leggere in tranquillità in questa tempesta, è diventato impossibile. Quando non lavoro da remoto per le lezioni scolastiche, o non ascolto le trasmissioni e i quotidiani bollettini di guerra, riesco appena a soffermare la mente su qualche frase d’intensa profondità di poesia o di prosa di un libro preso a caso, o sostare dalla finestra aperta della mia camera fissando la strada deserta, come stessi sul ponte del Peqod, attendendo di udire quel grido…«Laggiù soffia! Laggiù soffia! ….»*
*Avevo chiuso così, ma poi mi sono ricordato che ci sono i telefoni, gli smartphone, internet. Ecco, appunto. Mi chiedevo se Umberto Eco , vivendo questo tempo, per sua fortuna risparmiatogli, avrebbe potuto confermare o in parte correggere il suo famoso giudizio sulle «legioni di imbecilli» che affollano il Web. Me compreso ovviamente.
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