Letteratura

L’abisso arredato di Ariase Barretta

29 Aprile 2022

L’abisso non è mai abbastanza profondo. In fondo è un abisso, nessuno sa veramente quanto lo sia. Ognuno ha il proprio abisso e se lo arreda come vuole perché l’incubo in cui vive, nella libertà limitata in cui le convenzioni sociali lo circoscrivono, è indicibile, inenarrabile. Davide, il protagonista e io narrante del Cantico dell’abisso (Arkadia, 2021) di Ariase Barretta, riesce però a farne un cantico, un diario di quest’incubo, di quest’abisso che è stata la sua vita, almeno fino a un certo punto. In fondo lui cercava un po’ d’amore, ma lo aveva ricevuto solamente dal fratello minore, in un rapporto di complicità e protezione reciproca per quanto possibile. E Davide è, peraltro, l’unico a sopravvivere in una famiglia totalmente squinternata, dove ognuno mente a sé stesso e davanti agli altri, e dove ognuno ha un passato e un presente da camuffare perché le loro figure, i loro ruoli sono talmente fuori da non potersi nemmeno pronunciare.

Il diario di Davide inizia da una pre pubertà, in cui comincia a percepire una sessualità in un nucleo familiare con un padre argentino, con tutto ciò che essere argentino porta con sé, ossia macho, emigrato, ritornato in Italia alle origini familiari, con un misterioso passato rinchiuso in alcune cartelline il cui contenuto solamente alla fine del diario Davide rivelerà ai lettori; una madre autoritaria e invadente, sempre pronta a menar le mani; un’amica della madre ancora più severa e manesca, un personaggio orrendo; un fratello minore, bravissimo a scuola, che però avrà dei grossi problemi di salute; dei borghesissimi nonni materni come ologrammi, come se non ci fossero. Un ambiente periferico e paesano dalle visioni assai ristrette e morbose, dove il confine tra il proibito e il lecito quasi non esiste, dove dei mondi vorrebbero comunicare e non riescono, dove la repressione sessuale produce mostruosità e si accumula alle repressioni precedenti. Il quadro è abbastanza depressivo. Ma il titanismo di Davide, cullato dai personaggi dei cartoni animati e dei fumetti, immerso nelle canzoni di Madonna, riesce a superare ogni cosa e in una confusione totale di ruoli, di sessualità, di piaceri e di abissi, trova finalmente la sua strada, senza che debba rendere conto e ragione a nessuno, senza alcun modello. Semplicemente cucendosi il proprio abito su di sé, sulla sua esperienza, su un rapporto incestuoso con un padre idolatrato che ha una relazione fittizia colla moglie, la madre di Davide, mentre ognuno cerca di difendersi come può da quel groviglio, senza mai realmente analizzare la realtà e porvi uno sguardo rasserenante, prendendo coscienza di ciò che si è, sempre nascondendo, sempre simulando, sempre danneggiando sé stessi e le persone a cui, teoricamente, si dovrebbe voler bene più d’ogni altra cosa al mondo.

Davide, l’unico sopravvissuto di quella famiglia, lascia un diario dell’abisso senza giudizi, è semplicemente una cronaca, un cantico, un poema epico liofilizzato.  Ariase Barretta, è il gigantesco cronista di questo crepaccio che viene svelato a poco a poco, lasciando intuire il non detto e poi confermandolo all’improvviso nelle pagine successive, è bravissimo a tenere la tensione della narrazione, rivelando cose che non vorremmo mai leggere ma da cui siamo inevitabilmente attratti. E sono vicende assolutamente possibili: vite di famiglie disastrate ma che in apparenza non dovrebbero esserlo, talmente condizionate dall’educazione cattolica e borghese, dove perfino il comunismo mostra il suo lato bigotto e ipocrita, in una Bologna alla fine del XX secolo che non ha assolutamente nulla di attraente, anzi piuttosto ripugnante, fatta di quartieri periferici come la Barca, uno dei più emarginati e problematici, e un entroterra ugualmente arretrato che non viene quasi mai fuori nelle narrazioni emiliane. L’Argentina remota resta un’ombra inquietante sullo sfondo, un’ombra infernale senza possibilità di interpretazione.

Io l’ho letto in poche ore tutto d’un fiato, così come tutto d’un fiato sto scrivendo questa recensione. È una lettura che raccomando agli stomaci forti ma che sicuramente farà riflettere sull’ipocrisia e sulle difficoltà della società attuale, non solo nostra. La cosa che spero che il lettore coglierà è la grande profondità che l’autore esplora nel buio, col batiscafo luminoso della sua lingua, semplice, cruda, impassibile, mostrando come la realtà sia complessa e come sia spesso impossibile venirne a capo senza ferirsi quando l’ambiente circostante è una prigione repressiva. Ognuno arranca come può, senza rendersi mai veramente conto dei guai che combina e la via d’uscita, per qualcuno, è la morte, inevitabile quando non si possono o non si vogliono avere gli strumenti per difendersi e rendersi conto. Davide, l’unico vero titano, comunque, alla fine trova la sua dimensione e la sua strada, lasciandoci il suo diario quasi come un viatico. Anche se alla fine è inevitabile chiedersi: chissà come sarebbe andata se…

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