Letteratura

La vocazione a riflettere. In memoria di George Steiner

3 Febbraio 2020

Ci sarà tempo, spero nelle prossime settimane, per tornare a riflettere sulla lezione che ci rimane di George Steiner, scomparo ieri.

C’è un suo testo molto piccolo che credo valga la pena riascoltare (si tratta di un ciclo di conversazioni che Steiner tiene alla CBC, Canadian Broadcasting Corporation, nel 1974) dal titolo Nostalgia for the absolute.

Nostalgia for the absolute è un testo ingannevole. É troppo facile per non dire che non sia chiaro, ma è anche troppo “costruito” perché si possa dire che tutto sia comprensibile alla prima lettura.

L’ origine di questo testo sta in due riferimenti impliciti. Da una parte un passaggio dei Racconti dei Chassidim di Martin Buber  a proposito della grammatica come luogo depositario della verità; dall’ altra la riflessione che Scholem propone sul linguaggio. Questo il testo di Buber:

Il Rabbi di Ger raccontava: ‘Nella mia infanzia non volevo applicarmi allo studio della grammatica perché credevo che fosse una scienza come tutte le altre. Ma più tardi mi ci sono dedicato perché ho visto che i segreti della Torà sono legati ad essa

E questa è la riflessione di Scholem

“La lingua originaria dell’uomo, quella paradisiaca, possedeva ancora questo carattere sacro, ossia un legame immediato e diretto con l’essenza delle cose che voleva esprimere. In essa risuonava ancora l’eco della,lingua divina, poiché nello spirare dello pneuma divino il movimento linguistico del creatore si era trasportato in quello della creatura. Le lingue profane sono nate invece dalla confusione linguistica provocata da una hybris magica: quella per cui l’uomo tentò- come dice Gn, 11,4 – di ‘farsi un nome’. Alcuni cabbalisti pensavano che la lingua originaria, l’ebraico, fosse del tutto priva di concetti puramente profani, non essendo stata destinata all’ origine a un uso profano. La generazione che volle erigere la torre di Babele abusò in senso magico di questa autentica lingua santa per imitare entro certi limiti, mediante la conoscenza dei puri nomi di tutte le cose, l’azione creatrice di Dio, e per carpire un ‘non È che fosse applicabile in ogni occasione. La confusione delle lingue consistette nel progressivo oblio di questa lingua, cosicché si dovettero inventare ed escogitare nuove denominazioni per tutte le cose”.

La parte consistente della riflessione di Steiner nelle riflessioni radiofoniche di Nostalgia dell’ assoluto risponde a queste due considerazioni. Al centro di questo audiotesto esplicitamente si colloca il problema del fallimento o della crisi delle culture che hanno tentato di rispondere con un ricorso messianico alla domanda di senso sul futuro della famiglia umana.

Steiner, in questo testo che nasce come programma radiofonico nel lontano 1974, un anno in cui contemporaneamente si sommano e si confrontano due immagini apparentemente contrapposte – da una parte la sensazione di fine del progresso con gli effetti della “crisi energetica” e, dall’ altra, la premonizione del “trionfo militare” del comunismo (l’ ingresso dei Vietcong a Saigon è del 30 aprile 1975) che sembra preludere a una sorta di ripresa di marcia trionfale e invece è solo l’ ultimo sussulto di salute di un complesso ormai in agonia irreversibile – affronta il nodo essenziale di quella che già gli appare come la questione della fine millennio: in breve la dismissione dai costrutti ideologici descrittivi e prescrittivi coniugata con il senso di vuoto definito da quella stessa condizione, solo apparentemente emancipatoria.

Nostalgia dell’ assoluto potrebbe essere intravisto – e qui sta la prima trappola dell’ascoltatore “sicuro di sé” – come un addio alla politica divinatoria, agli scenari complessivi che descrivono e stimolano sogni. Ma Steiner esprime il sentimento e la convinzione esattamente opposti. È perché si possa mantenere una possibilità di futuro utopico, di porta stretta attraverso la quale il Messia possa avere accesso verso di noi, che occorre dimettersi dalle ideologie che con troppa sicumera ci hanno consolato nei giorni di pioggia e di costrizione e avventurarsi di nuovo nella attenta analisi dei minimi segni che alludono a un possibile futuro.

In Dopo Babele,  un testo composto immediatamente a ridosso delle conferenze radiofoniche  che compongono Nostalgia dell’ assoluto, Steiner scrive:

“…la forza costruttiva della lingua nella concettualizzazione del mondo ha avuto un ruolo cruciale nella sopravvivenza dell’uomo di fronte a costrizioni biologiche ineluttabili, in altre parole di fronte alla morte. É questa miracolosa capacità delle grammatiche a generare realtà alternative, frasi ipotetiche e, soprattutto, i tempi del futuro che ha permesso alla nostra specie di sperare, di proiettarsi ben al di là dell’estinzione dell’individuo. Perduriamo, e perduriamo creativamente, grazie alla nostra imperativa capacità di dire ‘no’ alla realtà, di fabbricare finzioni di alterità, di una diversità sognata o voluta o aspettata dove la nostra consapevolezza possa trovare residenza. É in questo senso preciso che l’utopia e il messianesimo sono figure sintattiche”.

E del resto la considerazione con cui si chiude Nostalgia dell’assoluto è sufficiente a segnalarci che la questione per Steiner non è salvare un costrutto ideologico di cui si possa anche essere affascinati o attratti.

Perché possa darsi un futuro, occorre che si produca uno sforzo intellettuale in grado, come la mossa del cavallo o quella del salmone, costantemente a saltare con vigore controcorrente, rifiutare la linearità dell’agire o la dolce spinta verso la foce e risalire il fiume per tornare a bere la pura acqua della sorgente. In altri termini che il calcolo non sia tra energie consumate e risultati conseguiti. Nella partita per la storia non si dà una contabilità costi/benefici bensì, come aveva ben compreso Max Weber, una costanza che è contemporaneamente il linguaggio del politico e il suo sigillo.

Se questa interpretazione risultasse troppo di maniera, allora sarà sufficiente riprendere in mano le pagine de Il correttore per cogliere questa contraddizione solo apparente. Se la filosofia della storia che Steiner trattiene per sé fosse rubricabile all’ interno della categoria del riscatto e dello smacco tra “ricchi” e “poveri” Il correttore non sarebbe che una riscrittura aggiornata de La costanza della ragione di Vasco Pratolini, ovvero la parabola di una sconfitta, di un’etica comunitaria che dichiara la propria impotenza di fronte alle forze soverchianti alleate della secolarizzazione e della tradizione.

Steiner, invece, ritiene che non sia sufficiente riconoscere che si è perduta una guerra e che, dunque occorre tornare a casa.

Il ritorno a casa ha i segni del patto di fiducia tra amici e non quelli della dissoluzione e dell’autodistruzione.

Così a differenza di uno dei personaggi a cui Steiner ne Il correttore trasmette l’eco delle sue perplessità (Padre Carlo) egli è pronto a riconoscere contemporaneamente la forza di convinzione della violenza esercitata nella storia da parte delle chiese e la menzogna rappresentata dalla promessa di “un regno di giustizia, una fratellanza senza classi, una liberazione della servitù qui e ora. In questo mondo”, ma questo non implica l’anelito a un ritorno pacifico e rassicurante “a casa”. La sconfitta del disegno politico del comunismo sub specie di messianismo, è per Steiner, la riscoperta della componente del messianesimo come territorio della irreducibilità, dell’ipotesi della dignità della prova e del reinvestimento di risorse.

Il ritorno a casa con cui si chiude Il correttore non è così uno dei tanti “otto settembre” in cui si sogna il proprio luogo d’ origine e si cerca per vie incerte di ritrovare la lunga e tortuosa via di casa. Avviene, invece, nel segno della amicalità, della definizione della propria territorialità e del proprio posto nella storia a partire dalla interiorizzazione della propria sconfitta ma anche del valore della propria personalità e della possibilità di esserci ancora nella storia. Non è la consapevolezza di aver avuto torto a dare luogo a questa decisione, ma essa è resa possibile dalla determinazione che solo ricostruendo un circuito di sociabilità e di patto fiduciario fondato sull’ affidamento di sé sia possibile ripresentarsi all’ appuntamento con la storia.

Ricominciare è possibile, ma questo nuovo inizio non determina la fondazione di una comunità di identici, né la costruzione di un ordine conventuale che garantisca la salvezza o preservi dalla corruzione.

È l’attività interpretativa che garantisce dal senso della storia. Ma questa attività interpretativa non dipende, come ben aveva intuito Marrou, nel suo La tristezza dello storico, da una procedura o da una metodologia d’ indagine. Essa è il risultato di una condizione di inappagamento. La sua spia indiziaria è il confronto tra storia fattuale e processo redentivo nella configurazione dello scenario messianico.

Ma per Steiner, così come per una tradizione di pensiero cui gran parte della sua riflessione attinge, l’istanza messianica non rappresenta un riversamento estenuato della speranza. Così come aveva intuito Kafka nei suoi Quaderni in ottavo il Messia non è un attore che permette la salvezza nel momento della assoluta disperazione, ma esso si presenta “soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui”. Il messianesimo, la prospettiva messianica, è prima di tutto una tensione tra istanza restaurativa e istanza redentiva, tra attesa di un ritorno ordinativo di cui si conoscono tutti i segni e il cui orizzonte è normato, e proiezione di un possibile scenario di cui non si conosce niente e solo si intuiscono vaghe forme, come scrive Steiner in Vere presenze.

Complessivamente questi due scenari stanno sospesi tra due enunciazioni. La prima che chiude il testo biblico di Echà meglio noto come Lamentazioni, laddove si legge (Lam, 5, 19-21): “”Tu, o signore, resti per sempre, il Tuo trono esiste per tutte le generazioni. Perché ci vorrai dimenticare per sempre, abbandonarci per lungo tempo? Facci ritornare, o Signore, a Te ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico” e che sembra prefigurare il messianesimo come restaurazione, come istanza reintegrativa di un equilibrio originario.

Questo stesso equilibrio, o più precisamente questo anelito restaurativo, si incontra con un elemento palingenetico, con una redenzione che non è un ritrovamento, bensì una trasfigurazione. É la chiusa del libro di Amos (Am 9, 13-15), a esprimere nella forma più sintetica questa dimensione. “Giorni verranno – si legge nella chiusa del testo profetico – dice il Signore, in cui l’aratore sarà vicino al mietitore, il pigiatore di una a chi sparge il seme, i monti goccioleranno di succhi di frutta, e tutte le alture si scioglieranno. E rimetterò Israele Mio popolo nella sua condizione primitiva: costruiranno città, vi abiteranno, pianteranno vigne e berranno il loro vino, faranno dei frutteti e ne godranno il prodotto. Io li collocherò stabilmente nel loro paese e non saranno più divelti dal loro paese che Io ho dato loro, dice il Signore tuo Dio”.

Questo ritorno, tuttavia, non è solo la prefigurazione dell’ipotesi territoriale quale il sionismo cercherà di esprimere all’ interno di un reticolo politico in cui le istanze del nazionalismo moderno tenderanno a marginalizzare o a contenere le pulsioni di tipo antistatuale o utopico. Esso contiene anche un’istanza redentiva che fa coabitare utopia conservazione e restaurazione all’ interno dello scenario messianico Una figura in cui il ritorno alla condizione primitiva non è la ricostruzione della situazione di partenza.

È al testo di Isaia, un testo che per molti aspetti ha fornito il canone a uno scenario irenico di futuro, che lo scenario messianico risulta come una proiezione nel futuro assolutamente autonoma rispetto a un ritorno originaria o restaurativo. La redenzione è l’ instaurazione di un “nuovo tempo” scrive Steiner in Dopo Babele.

“Così colui che si benedice nel paese- si legge nel Libro di  Isaia – verrà benedetto nel nome del Dio della verità; saranno dimenticate le sofferenze di prima e verranno nascoste ai Miei occhi. Perché ecco Io sto per creare nuovi cieli e nuova terra, non saranno ricordate  le cose precedenti e non verranno più alla memoria” (Is, 65, 16-17).

Ma che cosa siano questi nuovi cieli e questa nuova terra non è detto. Né il tempo né lo spazio del messianesimo  (lett. nella tradizione ebraica nei “giorni del Messia”) sono definiti. La dimensione messianica non è come la costruzione utopica. Non è né un tempo dato, né uno spazio definito, né un sistema normato. In questo senso il messianesimo non solo non è un’utopia, ma così come si presenta è la garanzia per non trasformarsi in distopia.

Ma perché questa dimensione plurima possa tenersi aperta, perché in altri termini la dimensione messianica possa proporsi senza una configurazione definita ma sottosposta alla sollecitazione di esiti tra loro opposti, deve prodursi una comunità democratica di lettura in cui in forma regolata tutte le letture siano ammesse e democraticamente accettate. Sotto questo profilo ciò che si propone è in realtà solo l’indifferenza della lettura. Perché si dia conflitto salutare tra le letture, perché il conflitto produca senso e confronto interpretativo occorre che si produca un territorio incerto del significato. E questo è possibile solo se tra il testo e il suo significato si delimita uno scarto, un territorio discreto in cui rimangano margini – non importa quanto ampi – di libertà.

Così come la configurazione messianica è quello scenario di futuro che permette di liberare le istanze della proiezione della volitività, la lettura e per essa l’ interpretazione deve esser quello scenario, quel territorio della creazione culturale in cui non si dà esaurimento del significato. Perché questo avvenga non basta dichiarare delle buone intenzioni. Occorre la pazienza della lettura.

La lettura è un atto di sacralizzazione della parola, di rispetto per il testo, degli spazi che l’ interpretazione libera in termini di creazione. Al tempo stesso la lettura un atto attraverso il quale il lettore conferma la sua istanza di libertà, di non soggezione alla invasione fisica del libro, come produzione esegetica e interpretativa rassicurante e consolatoria, scrive Steiner in Nessuna passione spenta.

In questo senso La nostalgia dell’assoluto è un elogio della lettura. Degli spazi aperti che essa offre.

La lettura, in altri termini, sottolinea in Vere presenze, è il margine di libertà che ognuno può prendersi perché, per convenzione, il testo non assegna a nessuno la palma di “interprete autorizzato”.[

 

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