Letteratura
La vicinanza del 1940
Che io abbia un debole per la poesia di Massimo Sannelli non è un mistero.
In Poesie nello stile del 1940, raccolta pubblicata per il marchio indipendente Lotta di Classico, il potere inebriante dei versi di Sannelli si palesa però in maniera oggettiva, fatto patto che esista un’oggettività nella poesia e nelle altre faccende del mondo.
Ciò che emerge è, innanzitutto, l’intensità del gioco linguistico, funzionale alla creazione di un senso di smarrimento confuso eppure estremamente ovvio e del tutto inevitabile: “Non sei mai stata buona, testa bella,/cara cosetta calda, e non sarai/chi nuota in pace, male e in pace, mai.”
I vocaboli ricorrenti in tutti i componimenti sono di un realismo estremo, di una semplicità marcata ma, nella loro combinazione strutturata e cruda riescono a impattarsi con vigore sull’immaginario pragmatico del lettore: “…I vetri della birra sono verdi/perché si fa così; e forse ogni stanza/ha il suo arredo, il suo gioco, la sua noia.”
Il frequente uso di anafore ed epifore, poi, si inserisce in questa volontà di schianto violento dove l’autore vuole costringere chi legge senza possibilità di dimenarsi; non c’è cattiveria o sadismo in questo atto di Sannelli, quanto piuttosto il tentativo impetuoso di fare da apripista. “Fattelo dire da uno che c’è già passato” sembra gridare, come a mettere in guardia, come a non far commettere ad altri i suoi errori aventi sembianze di pensieri astrusi e comprensibilissimi, per chi è un sagittario o ha una qualche forma di sensibilità atipica.
La rabbia dei giusti soffia dentro gli incomprensibili spazi che la ragione non riempie, non più sorprendenti degli spazi interposti tra un oggetto e l’altro: “Il vuoto non è sonno, non è morte, e si vedrà, ma il vuoto non si conta,/tra sedia e sedia, tra lampada e vetro,/non si conta ma c’è…”; “il tentativo di risposta è già una risposta” è una conclusione che non soddisfa Sannelli, agguerrito e fragile in una battaglia di cui si conosce il finale ma volontariamente lo si dimentica, per poterla combattere di nuovo con l’originaria convinzione. E la lotta è anche contro l’impossibilità di sviscerarsi dai meccanismi dell’arte, quella del teatro, del cinema, della danza, della musica e della parola; contro l’impossibilità di scindere e di essere tutto, il sublime, il modello. Ansia che Sannelli già ha sperimentato in Memoriale della lingua italiana e che qui si ripropone con esito più esasperato e fattuale.
In Poesie nello stile del 1940, tutto procede a ritmo martellante, con la continua ripetizione dei termini all’interno di uno stesso componimento e dei temi-uroboro nella dimensione macro dell’antologia nel suo complesso: “A volte il morso ha segnato la spalla/e il braccio, il morso di animale, moglie,/con il suo odore, e questo morso è voglia/e sua soddisfazione, e vuoi che apra/lei stessa la tua pelle, ancora e ancora,/ancora, e l’arte è un sogno pieno di organi.”
L’autore non si perdona, non assolve niente e nessuno ma cerca di salvare tutti e di salvarsi: in fondo, la Luna che non risponde non smetterà mai di farci da interlocutrice; forse, la Poesia, non cesserà di essere la più credibile delle illusioni.
“Non era mai la Luna chi perdeva
nella gara celeste, e lo sapevi.
A noi rimane una fragilità
diversa e buona, ed è il lavoro,
solo questo lavoro, che non può finire,
questo andare così, questo venire.”
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