Letteratura
La Tregua di questo nostro tempo
A lungo abbiamo letto La Tregua di Primo Levi come la storia del ritorno. Forse, complice, anche la condizione in cui ci troviamo collettivamente, sarebbe più utile guardarlo come il percorso del rientro. In questo caso credo rimanga salva la strada della lenta risalita dall’orrore verso la speranza anche se questa da sola non basta e oggi ci rendiamo che accanto ad essa dobbiamo anche mettere la dimensione dell’incertezza.
La domanda non è se domani andrà meglio di oggi, bensì quale domani ci è riservato, come ci muoveremo in quel domani, che cosa si è salvato (ammesso che si sia salvato qualcosa) del mondo di ieri e come riprendere le misure per provare a dare un senso all’agire.
Forse, così rileggere La Tregua in questi giorni è meno ingenuo di quanto in prima battuta potrebbe apparire. In ogni caso non è un percorso di fiducioso ottimismo.
Cominciamo allora dalla fine, ovvero da cine abbiamo letto quel testo dovendo fare i cinti con la morte di Primo Levi.
Il 10 aprile 1988, in occasione del primo anniversario della morte di Primo Levi, Mario Rigoni Stern pubblica su “La Stampa” un articolo (lo si può ritrovare qui) in cui ricorda soprattutto cosa aveva voluto dire per lui 25 anni prima, leggere La Tregua.
La lettura di quel libro, scriveva Rigoni Stern, aveva voluto dire ritrovare “la sintesi della Storia che travolse l’Europa e il mondo”.
Da una parte la scena del dolore per la morte di Hurbinek, il bambino senza nome che non aveva mai pronunciato una parola, dall’altra la determinazione di vivere Di Mordo Nahum, il greco (forse una delle figure più significative di quel racconto del ritorno avventuroso verso Torino), uno che appena rimesso in strada a muoversi nel mondo, si arrangia, inventa un passato, in nome di una possibilità di riscatto.
Un libro, scriveva Rigoni Stern, in cui i luoghi della catastrofe acquistano uno spessore tutto loro e dove si si intersecano le tragedie di chi non sa dove andare, e le ansie di chi prova a tornare a casa, ma anche le condizioni incerte del presente. Una dimensione in cui contemporaneamente improvvisamente torna ad essere vera la voglia di scommettere sul futuro.
Il futuro, tuttavia in quel testo non è nel progetto, è nel viaggio.
Nel lungo viaggio intrapreso attraverso un’Europa orientale costellata di campi profughi e in una babele di lingue.
Un brulichio di masse eterogenee si leva, tra le macerie dell’Occidente, dai campi di sterminio e di prigionia, un melting pot di uomini guidati da una vitalità elementare, dalla speranza di sopravvivenza, dalla necessità di comunicazione in un rumore e una sovrapposizione etnico-linguistica e in un primordiale baratto di merci di ogni tipo.
La vita è lì.
Fino a che ci si muove, c’è la possibilità di tornare a casa (Rigoni Stern nel suo Il sergente nella neve aveva fatto, appunto, della domanda ripetuta ossessivamente dai suoi alpini “ritorneremo a casa?” un refrain). Casa nel linguaggio del reduce è di solito l’epilogo di una brutta avventura, è riprendere la vita di ieri, è tornare alla vita di prima.
E tuttavia se a lungo dentro La Tregua quello sembra essere il fine, le ultime righe ci dicono che quella storia solo apparentemente si è chiusa, e che tregua non è il tempo sospeso tra l’attino della liberazione e quello di varcare la soglia della propria a casa, ma è quella condizione incerta che comincia una volta che il viaggio è finito e che si tratta di riprendere a vivere, di trovare una nuova quotidianità.
Un altro tempo forse è iniziato e il problema è capire con quali risorse si è capaci di affrontarlo. Meglio: con quali armi culturali, emozionali, disciplinari, o con quali energie, che in quel tempo di transizione si è riusciti a ad assimilare, si è pronti ad accogliere il “nuovo tempo”, che auspicabilmente vorremmo che fosse come il vecchio, ma che come il vecchio non sarà.
Il tema è allora se per davvero siamo pronti a e siamo in grado di affrontare la quotidianità nella nuova presunta normalità che ci aspetta fuori.
Forse un tempo avremo risposto che l’importante era provare.
Non ne sono così sicuro.
Si affronta la vita in un futuro incerto sulla base di un’idea di futuro che non abbiamo prima ma che replichiamo all’idea di futuro che pensiamo possibile (e temibile) solo come conseguenza della nostra inazione.
A lungo l’idea di futuro che ci siamo costruiti era è stata quella speculare e opposta a tutte le distopie della tecnologia (non importa se era lo scenario del dopo disastro nucleare o di un dispotismo quale per esempio ce lo ha raccontato Orwell in 1984).
La nostra idea di futuro democratico, largo, reciproco si basava sulla costruzione di un futuro immaginario che non volevamo. Forse era più semplice dire che era la risposta dopo la fine delle utopie e che quel desiderio era il massimo che potevamo esprimere nel tempo malinconico della eclisse dell’utopia o del suo essersi rivelata più facilmente un regime dispotico che non un regime libero.
Non è più quello il nostro scenario già oggi, ancor meno lo sarà domani.
Proprio perché non siamo ancora in grado di raffigurarci lo scenario del male assoluto non siamo in grado di disegnare un futuro auspicabile che tenga a bada la possibilità che quel futuro nemico si affermi. Per ora quel futuro è più forte. Per questo il giorno dopo in cui anche timidamente usciremo di casa non saremo in grado di pensare futuro possibile. Lo saremo solo se in questo tempo, apparentemente senza possibilità di azione avremo trovato percorsi per raccontarci ipotesi di futuro. Per ora qual tempo della tregua è, immobile, ciascuno a casa, non racconta di futuro che vogliamo, ma solo della paura che non saremo in grado di fargli fronte.
Il nostro tempo della tregua, rischia di presentarsi come un tempo fermo, senza stupore e senza domande. Per cui, penso e temo, quando supereremo la soglia di casa, saremo senza risorse e, dunque, senza un progetto in grado di raccontare e scommettere su un futuro auspicabile. Al più con un presente che sopportiamo, per evitare di confromtarci non parlare del futuro nemico che avremo di fronte. Non sarà sufficiente.
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