Letteratura

La sublime costruzione: intervista a Gianluca Di Dio

23 Maggio 2022

In un tempo indefinito, vicinissimo al nostro quotidiano, in un “altrove” segnato da una catastrofe naturale, cui è seguita una pandemia, un uomo senza particolari qualità e vocazioni, un “nessuno” della storia, affronta le difficoltà di un futuro apparentemente senza speranza, cercando di sopravvivere, giorno per giorno. Qualcosa però improvvisamente cambia: un annuncio, la promessa di un lavoro, di prosperità, dignità e sicurezza, che aspetta tutti coloro che vorranno mettersi in gioco. Un enorme infinito cantiere attende operai che possano dedicare la loro vita alla “Sublime costruzione”, trovando un senso alle loro esistenze e una prospettiva per il domani. Andrej, il protagonista, deciderà di cogliere questa opportunità, mettendosi in viaggio verso nord, in compagnia dell’amico Årvo e di un gruppo di compagni animati dalla speranza di cambiamento. Da qui ha inizio il viaggio per tappe, di chiaro rimando omerico, narrato da Gianluca Di Dio nel suo ultimo romanzo, “La sublime costruzione” edito Volland. Un’avventura distopica fra inganni, magie, giganti, guidata dalla ricerca di senso esistenziale, di uno spazio di agibilità individuale in un mondo in cui i destini personali sembrano inesorabilmente segnati dal fallimento e dalla sofferenza. Con una prosa ricercatissima e una costruzione narrativa che testimonia un approfondito lavoro sulle fonti e sulla tessitura della trama, Di Dio accompagna il lettore in una riflessione, universale e personale allo stesso tempo, su ciò che da senso e dignità, prospettiva e obiettivi alle nostre vite. Un’opera inconsueta, narrata con voce originale e con una cura formale che non scade mai nel gioco stilistico fine a sè stesso. Un racconto che raccoglie la sfida urgente del presente di trovare un senso al caos in cui quotidianamente viviamo immersi e, allo stesso tempo, non indulge a una semplice introspezione, ma in modo ambizioso prova a dare una lettura di sistema, basata sull’analisi del mercato e delle regole del capitalismo in cui, consciamente o inconsciamente ciascuno di noi vive.

Ne abbiamo parlato con l’autore durante un’intervista in occasione del festival LiberAvoce tenutosi a Parma il 14 maggio.

Questo romanzo ha come filo conduttore il tema del lavoro, spazio di realizzazione, luogo di espressione di un’identità sociale, strumento per offrire dignità alla vita individuale. Da cosa nasce l’esigenza di scrivere su questo argomento e soprattutto perché hai deciso di trattarlo in modo figurato?

Volevo parlare di lavoro perché ai tempi in cui ho cominciato a pensare a questo romanzo mi sembrava il problema sociale più sentito e importante. C’era stata una catastrofe economica pesantissima nel 2008, che aveva lasciato cicatrici terribili nel tessuto sociale italiano e di tutto il resto del mondo, e a distanza di un po’ di anni non si era ancora risolta e sentivo l’esigenza di parlare e di raccontare una possibile ricostruzione, un difficile ritorno alla normalità e alla dignità dell’uomo che per me può essere recuperata solo col lavoro. Ricordavo il bellissimo ottavo capitolo di America, troncato sulla speranza di Karl il protagonista e dell’amico Giacomo che partono in treno per raggiungere il teatro naturale di Oklahoma, in cui sono appena stati assunti, dopo scoraggianti e paradossali licenziamenti ed esperienze da vagabondi nella terra del sogno della scalata sociale, appunto, e da lì sono partito. Ho provato a cominciare dal realismo, con piccole storie vere trasformate e a poco a poco ho preso a impastarle, a tagliarle con invenzioni e sottili menzogne come faccio di solito, ma niente, venti, trenta cartelle e non riuscivo più ad andare avanti. Eppure ero convinto di dover scrivere un grande racconto epico che avesse in sé qualcosa del desiderio utopico del giovane protagonista di America. L’utopia mi sembrava un punto necessario per la mia storia, non c’è niente di più grandioso dell’utopia, mi dicevo, tutti i capolavori più memorabili nascono da un’utopia, la stessa Commedia di Dante è un iperbolico affresco utopico, in fondo. Così ho provato a spostare un po’ l’attenzione, a cercare di capire quale fosse l’aspetto ineludibile per me, la cosa che riguardasse maggiormente il mio universo estetico, in un classico che per eccellenza esprimeva una visione utopica indimenticabile come la Divina Commedia. E ho trovato che la fascinazione fulminante che mi arrivava da quell’opera stava nella sua irrealtà, nella sua esplicita e detonante carica simbolica. Quindi da quel momento ho cominciato a cercare simboli potenti e non più storie vere. Simboli della realtà in cui viviamo e che, per quanto mi riguarda, sono un modo di descrivere quella stessa realtà in modo estremamente più interessante e coinvolgente. Si trattava, quindi, a quel punto, di raccontare un’utopia col linguaggio del simbolo. Ho pensato a un’immagine simbolica di riferimento per il viaggio dei miei personaggi principali e sono arrivato, parlando di lavoro, alla figura del cantiere, un cantiere che però fosse perenne, mai finito, per realizzare una costruzione infinita e così gigantesca e immane da poter coinvolgere e riguardare tutti i viventi sulla terra: la Costruzione, la Sublime Costruzione. Ma a questo punto, quando avevo ormai uno dei capi della storia in mano, come al solito, invece di puntare dritto al suo svolgimento e vedere dove mi portava, mi sono girato indietro e il mio pensiero si è andato ad annodare intorno a quella parola, viaggio, che era la parola con cui sia il protagonista di America, sia i miei protagonisti dovevano per forza confrontarsi per poter raggiungere la loro utopia. E allora ancora una volta mi sono rivolto ai classici e ai simboli, agli archetipi, e mi sono chiesto quale fosse e dove fosse, in quale storia mitica risiedesse, l’archetipo del viaggio che doveva aiutarmi a costruire il mio racconto. E la risposta era naturalmente l’Odissea.

Un altro tema centrale è la ricerca di senso nel percorso individuale. Andrej all’inizio punta alla mera sopravvivenza, poi, per tappe, avviene un cambiamento. Sono tanti i temi sociali e legati al rapporto con il potere che si fanno strada fra le pagine di questo romanzo. Ti va di parlarcene?

Lo studio dell’Odissea mi ha portato a scoprire cose inaspettate su questa opera fondante del canone letterario occidentale e a rileggere alcune sue parti in maniera nuova, collegandole alla nostra storia più o meno recente. A un certo punto ho avuto un’intuizione: ho immaginato le principali e più memorabili peripezie di Ulisse (le Sirene, i Mangiatori di loto, Polifemo, Circe e la Discesa all’Ade) come rappresentazioni allegoriche di particolari temi/problemi sociali, nati e sviluppatisi ciascuno in un preciso decennio del novecento, dal dopoguerra al nuovo secolo: ciò che in sostanza individua lo spirito particolare di un determinato decennio.
Così, per esempio, le Sirene, che nel mio romanzo sono diventate un branco di pescatrici ipnotiche e bellissime, cercano di accalappiare gli uomini per distruggerli, svuotarli e farne schiavi, ricordando la lotta per la parità uomo-donna nata negli anni sessanta con il femminismo in America e poi diffusasi in Europa; i Lotofagi che nell’Odissea danno da mangiare il fiore del loto di cui si nutrono ai compagni di Ulisse rendendoli felici e dipendenti da quel cibo, sono un’allegoria degli anni settanta, gli anni delle droghe, sappiamo infatti che nel 1974-75 l’eroina comincia a comparire nel mercato illegale italiano in grande quantità; il Ciclope invece rappresenta gli anni ottanta. Nell’ ’80-’81, in Italia nascono le prime palestre di cultura fisica e quindi un culto nuovo del corpo e dell’esteriorità, con un aumento deciso nella società del narcisismo e dell’individualismo, anche come reazione al collettivismo estremo del decennio precedente; Circe, poi, ci racconta della mistificazione della realtà, dell’inganno del potere, e qui il collegamento con gli anni novanta viene facile se si pensa alla discesa in campo di Berlusconi. Ma in più c’è anche un altro fenomeno sociologico che l’avvicina a quegli anni, ovvero la cosiddetta “pornificazione della società”, cioè la nascita della pornografia amatoriale diffusa via internet. Circe infatti con la sua bacchetta tocca i compagni di Ulisse e li trasforma in porci e questo rappresenta una suggestiva traduzione allegorica di quel fenomeno; infine abbiamo la discesa nel regno di Ade che a me ha richiamato quella terribile data, l’11 settembre 2001, da cui prende corpo la stagione del terrore col suo tragico strascico di guerre di religione e fondamentalismo. L’inaugurazione di un decennio in cui si afferma prepotentemente la logica del martirio: desiderio di morte per dare morte, una sorta di apoteosi della morte e di una celebrazione dell’avvento di un Regno dei Morti, come quello che trova Ulisse nella sua discesa all’Ade.
È come se compiendo questo viaggio simbolico, attraversando queste situazioni allegoriche, i protagonisti si cimentino e facciano esperienza del problema fondante di ciascuno di questi decenni, assumendo su di sé la responsabilità di risolverlo o portare avanti un suo sviluppo. E solo facendo tesoro delle esperienze del passato, riusciranno a sviluppare una vera coscienza di cosa sia la vita e a sviluppare un proprio senso, una propria ratio, una propria e individuale Sublime Costruzione. Solo attraverso un processo di disamina dell’inconscio collettivo di cui fanno parte le esperienze e i racconti mitici dell’intera umanità. Racconti mitici che alla fine non sono altro che tasselli di quella grandiosa opera di autocoscienza che di decennio in decennio l’umanità porta avanti con sofferenza e abnegazione disperata. Un viaggio nel tempo, quindi, ho realizzato con questo mio romanzo, qualcosa che annulla il tempo, un viaggio tra il fantascientifico, il metafisico e il surreale.
Andrej lungo questo viaggio cambia e si trasforma. Si presenta all’inizio del libro come un “ Nessuno”, cioè come un uomo qualunque e senza qualità con caratteristiche che stanno agli antipodi di quelle dell’eroe omerico, e diventerà alla fine un uomo libero che capisce il significato della vita decriptando i rapporti di potere che ne stanno alla base. Riuscirà, al termine del viaggio, a comprendere cosa vuole fare della sua vita e a liberare i  suoi compagni motivandoli profondamente, trasformandosi in un condottiero dal multiforme ingegno degno del suo modello omerico.

E tu come vedi oggi il rapporto fra individuo e lavoro? C’è una critica di sistema che aleggia nel romanzo…

Il pensiero che Andrej elabora alla fine del suo viaggio, la sua Sublime Costruzione, quello che gli permette di andarsene da Circe, di essere libero e di capire cosa vuole fare della sua vita, deriva appunto da una riflessione sul senso del potere nella società contemporanea legato al mondo del lavoro. È un pensiero illuminante che un filosofo contemporaneo, Giorgio Agamben, esprime molto bene in un suo bellissimo saggio intitolato: Su ciò che possiamo non fare. Agemben dice che: “Il potere ‘democratico’ separa l’uomo da ciò che può non fare, anche se questi, a differenza degli altri viventi, è l’unico animale che può la propria impotenza.” Cioè: l’uomo può decidere di rifiutarsi di fare una cosa, può decidere che una determinata attività, un preciso ruolo sociale non fa per lui e che non ci si dedicherà mai. Ma il potere, nella società contemporanea, secondo Agamben, impedisce questa negazione attraverso l’illusione: facendo credere all’individuo di potere fare tutto. Di qui il confondersi delle vocazioni, delle identità professionali e dei ruoli sociali che ammorba la nostra società. “L’idea che ciascuno possa fare o essere indistintamente qualsiasi cosa non è che il riflesso della consapevolezza che tutti si stanno semplicemente piegando a quella flessibilità che oggi è la prima qualità che il mercato esige da loro”, dice ancora Agamben. E su queste parole, su questi concetti che condivido, ho costruito la crescita e la consapevolezza del mio protagonista.

Questo libro arriva dopo l’esperienza della pandemia: un “viaggio infernale da fermi” lo definirei. Questo viaggio odissiaco per tappe sembra voler delineare nuovi scenari possibili nel presente. Pensi che la letteratura possa aiutare a farlo?

La letteratura è essa stessa un viaggio da fermi, c’è chi sostituisce completamente la vita con questo viaggio eterno e sempre nuovo che è la letteratura. Per me è sempre una sfida perché credo che il compito di chi scrive sia quello di agganciare sempre la vita alla letteratura, anche in modi non convenzionali o strettamente realistici. Per questo non credo alla scrittura come intrattenimento, io non mi intrattengo con la letteratura, io mi trattengo in vita con la scrittura e questo per me è forse la cosa più importante. Oltre al fatto che negli ultimi anni per me la letteratura è diventato un viaggio da fermi tra sue concetti particolari e fondamentali, due concetti attraverso i quali si può leggere la nostra vita di oggi: orfanità e utopia.
La Sublime Costruzione  come Più a est di Radi Kürkk, il mio precedente romanzo, nascono entrambi sull’architrave concettuale fornita dal rapporto tra queste due parole: orfanità e utopia. La storia de La Sublime Costruzione scaturisce ed inizia da una situazione di orfanità: il mondo di Andrej e Årvo non esiste più, è stato spazzato via da una lunga guerra; e procede verso la ricerca di un ideale utopico: il lavoro per tutti, in un grandioso cantiere che non avrà mai fine. Da questi due poli si sviluppa poi tutta la storia che è un lungo viaggio di ricerca e avventura. E tutta la tensione narrativa deriva dal fatto che tra il concetto di orfanità e quello di utopia vi è un forte collegamento, secondo me.
L’orfanità è un sentimento, una sensazione imprescindibile nella nostra vita di oggi, una condizione esistenziale strettamente collegata all’interiorizzazione del sistema capitalistico e del consumo, che creando continuamente delle necessità, crea delle mancanze e uno stato che alla lunga diventa di vuoto e mancanza perenne, mancanza a prescindere, un senso appunto di orfanità delle cose che presto si allarga a comprendere anche le persone e gli affetti, i rapporti sociali, trasformandosi in una condizione di surroga perenne: si deve trovare sempre qualcosa che sostituisca quello che manca o quello che ci viene fatto percepire come mancante, secondo un processo che potremmo dire di obsolescenza programmata e che non riguarda solo i computer o le cose ma anche i rapporti umani. Da qui nascono due desideri, uno basso: quello del consumo che serve a riempire di cose i vuoti indotti dal sistema; e uno alto: quello di un’Utopia, cioè di una passione per qualcosa di più grande, di più elevato, di irrealizzabile, irraggiungibile forse, ma che ha la grande capacità di mettere pace alla sensazione di orfanità che ci trasciniamo dentro. È il bisogno di una missione, che ci fa tornare a una fase staminale della vita, quella dei vent’anni, quella in cui tutto è ancora possibile e dove tutte le direzioni sono ancora aperte.

“La sublime costruzione” è un romanzo difficile, come temi, ma anche e soprattutto come stile. Si intuisce un profondo lavoro di ricerca, di elaborazione, di “lima”, come dicevano gli antichi. Quali sono i tuoi modelli?

C’è tutta una serie di autori europei che raccontano mondi come quello che ho rappresentato nel mio libro, mondi e personaggi residuali, naufraghi di una devastazione materiale e morale che ha creato un lutto, una perdita di senso spazzando via dalla società valori e tradizioni legate ai luoghi devastati. Sono quasi esclusivamente autori dell’est Europa che si aggirano come cani sciolti o se vuoi come fantasmi nel nostro rovinato continente. Autori come il russo Vladimir Sorokin, che ha scritto capolavori come La tormenta, o l’ungherese Krasznahorkai, già sceneggiatore del regista di culto Bela Tarr, o ancora i rumeni Cartarescu e Bodor, o la stessa acclamatissima Agota Kristof. Questo per quanto riguarda le ambientazioni e i personaggi. Riguardo alla lingua, invece, il riferimento principe è sempre Manganelli, ed è fondamentale, per me quello che lui dice a proposito del linguaggio: “Un linguaggio è una legislazione ipotetica che in primo luogo inventa i propri sudditi: i luoghi e gli eventi. Un luogo è un linguaggio: noi possiamo essere in un luogo solo accettando le regole linguistiche che lo inventano.” È proprio facendo emergere il linguaggio che avevo dentro di me che poi si sono generati i luoghi e i personaggi del mio libro. Manganelli dice, ancora: “Lo scrittore (colui che maneggia oggetti letterari) è chiamato a dar testimonianza sul linguaggio che gli compete, che lo ha scelto, l’unico in cui gli sia tollerabile esistere, riconoscendosi nient’altro che un’arguzia del linguaggio stesso, una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici.” Credo che questa affermazione sia il precetto fondamentale a cui ciascun aspirante scrittore si debba attenere e di cui debba tener conto per portare avanti la propria ricerca.

Anche a livello di contenuti il romanzo fa pensare a un lavoro importante di documentazione, di ricerca preliminare. Ti va di raccontarci qualcosa dell’ “officina” dell’autore Di Dio?

Per scrivere un romanzo io devo sempre aver chiaro, all’inizio, il quadro concettuale del lavoro che voglio realizzare e quindi vado a cercare le parole che rappresenteranno i miei riferimenti e su cui elaborerò il pensiero che mi sosterrà in tutto il periodo (spesso molto lungo) della scrittura. Poi cerco i libri che hanno parlato delle stesse cose e i grandi classici di riferimento e me li studio per capire differenze e possibili affinità. E come ultima cosa, prima di procedere alla scrittura vera e propria, cerco un libro di poesia di qualche autore sublime, come è stato Borges per questo mio ultimo romanzo, che mi tenga compagnia per tutti i lunghi anni della stesura. Un poeta che con il suo lavoro mi faccia entrare immediatamente in contatto con l’atmosfera che io vorrei realizzare all’interno del mio romanzo in formazione.
Ecco, poi si parte, ma la cosa strana e bella nel contempo è che non si è mai sicuri di arrivare.

Hai dei progetti nel cassetto? Stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Sto cercando di archiviare La Sublime Costruzione, innanzitutto, di spostarlo in qualche recesso ordinato del mio cervello per far posto a qualcosa di nuovo. Quando questo avverrà sarò pronto ad affrontare una nuova storia che in realtà progetto da un po’. Vorrei raccontare qualcosa degli anni ’80, attraverso la vita di due studenti che vogliono fare arte e arrivare a Parigi senza mai riuscire a raggiungere la loro meta. Una storia che vorrei collegare a un mio viaggio a piedi da Parma al paese di mia nonna, e alla poesia francese dell’800. Non so, spero di riuscirci. Prima o poi.

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