Letteratura
La struggente tenerezza di Cesare Pavese e Bianca Garufi
Nell’estate del 1945 si intesse un epistolario tra Cesare Pavese e Bianca Garufi, entrambi redattori della casa editrice Einaudi.
Bianca influì molto sulla produzione letteraria di Pavese: si ritiene che, grazie alla sua considerevole presenza, Pavese abbia scritto “I dialoghi con Leucò” e le nove poesie della raccolta “La terra e la morte”.
Bianca rappresenta per Pavese la “novella Circe”, che fa venir in mente con la sua bellezza procace e tipicamente mediterranea “i graffiti preistorici”, qualcosa “di rituale, di mitologico”.
È la sua “fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento”.
È un fiume al quale occorre abbandonarsi: “io mi abbandono a te, tu senza saperlo hai la forza di portarmi”.
“Se tu hai sonno, vorrei almeno essere la mano che ti protegge, una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno e con te mi è naturale come il respiro”.
“Tu sai che per me la tua presenza è pura gioia, tanto una gioia che talvolta corro il rischio di dimenticare che magari tu soffra. Non sono mai stato abituato ad un contatto come il nostro. Io ho sempre soltanto combattuto in queste cose. Potrei dire che sono tutto cicatrici e stanco” (Roma 21 ottobre 1945).
“Lascia stare me e le mie storie, ma anche tu sei in questo tra noi e con te ho dei valori che sono qualcosa di più che una passione”.
Gli scrive così Bianca: “tu invece mi aspettavi e con te la mia vita come era sempre stata, senza rimedio, senza fine, una vita sull’argine del fiume, non so come dirti… Incominciavo persino ad immaginarmi che un giorno o l’altro ti avrei trovato nella mia vita, tanto da tener conto della tua presenza, come di quelle cose di cui si tiene conto inavvertitamente: dove sei nata, quando, che lingua parli, il colore dei tuoi occhi, tutte le cose che sei, inevitabilmente “(Roma 21 ottobre 1945).
In una bellissima poesia Bianca è “ricca come un ricordo, come la brulla campagna, tu dura e dolcissima parola, antica per sangue raccolto negli occhi; giovane, come un frutto che è ricordo e stagione”.
“Il tuo fiato riposa sotto il cielo d’agosto, le olive del tuo sguardo addolciscono il mare, e tu vivi, rivivi senza stupire”.
“Sei un chiuso silenzio che non cede, sei labbra e occhi bui. Sei la vigna”.
“Hai viso di pietra scolpita, sangue di terra dura, sei venuta dal mare. Tutto accogli e scruti e respingi da te come il mare. Nel cuore hai silenzio, hai parole inghiottite. Per te l’alba è silenzio. La parola non c’è che ti può possedere o fermare. Cogli come la terra gli urti, e ne fai vita, fiato che carezza, silenzio”.
L’epistolario nasce quando Bianca lascia Roma e raggiunge la sua Sicilia in vacanza nella grande casa materna di Letojanni, a nord di Taormina.
“Ogni volta rivivi come una cosa antica e selvaggia, che il cuore già sapeva e si serra”.
Come ha scritto Mariarosa Masoero – che ha curato il carteggio fra i due scrittori – Cesare Pavese e Bianca Garufi furono “una bellissima coppia discorde”.
Si rinvengono infatti anche lettere nelle quali lo scrittore piemontese rimprovera la Garufi soprattutto per il fatto che lei manchi di rigore, di stabilità.
Le crisi depressive colpiscono entrambi e Bianca dopo le dimissioni dalla casa editrice è in gravi difficoltà economiche, cui sopperirà anche lo stesso Pavese con prestiti finanziari.
Ma piace vederli innamorati forse a Maratea dove si colora e si sviluppa la trama del bel romanzo scritto da entrambi che Italo Calvino, “altro enaudiano”, porterà alla luce nel 1958 dopo la morte di Pavese con il titolo “Fuoco Grande” e che la Garufi continuerà con un altro suo romanzo nel 1962, “Il fossile”.
Nel “Fuoco Grande” Pavese ha il nome di Giovanni, mentre Bianca quello di Silvia.
Così è descritto l’incontro d’amore nella casa di Silvia a Maratea.
“Ero come un malato cui la febbre è caduta. Ero fiacco e svogliato, ma in fondo al cuore mi cantava una recisa volontà. Potrei pensare un domani senza Silvia. Se qualcuno mi avesse veduto nel cuore, vi avrebbe trovato una struggente tenerezza per le cose e le presenze di quel tempo, per la calda ricchezza di quella vita e i silenzi, gli sguardi, le risate, gli incontri- un entusiasmo di speranza – ed al centro un vuoto uno sgomento, un’angoscia-la mia Silvia, la Silvia vera.
Ripensai che ero stato felice e forse ero felice anche stanotte. Forse era questa la felicità, questa triste speranza.
Entrai senza bussare. La luce era accesa e Silvia in quel lettino, con i neri capelli in disordine. Ebbe un sorriso nella voce, di pronto sollievo, quasi di festa, quasi che mi aspettasse.”
Silvia era Bianca e Giovanni Cesare: la struggente tenerezza.
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