Letteratura
La storia dell’America latina è una storia di sconfitte
Il mate è una bevanda a infusione tipica del sud dell’America latina. Si prepara inserendo una speciale cannuccia nella yerba-mate – un miscuglio di diverse erbe, spezie e legni – e versando dell’acqua molto calda nel recipiente. Se vai in un qualsiasi parco pubblico – in Cile, Argentina, Paraguay o Uruguay – una persona su tre sta bevendo un mate o porta con sé un thermos per poterlo bere più tardi. Se chiedi a un uruguaiano dove è stata inventata tale bevanda, egli ti dirà Uruguay; se lo chiedi a un argentino, ti dirà che il mate è chiaramente di origine argentina, probabilmente anche con un po’ più di stizza. Hanno ragione e torto entrambi. Il mate venne inventato in realtà dalle popolazioni indigene che abitavano quelle aree molti secoli prima che esse diventassero rispettivamente Argentina e Uruguay.
L’America latina, così come la conosciamo, è una imposizione esterna. Il popolo Guaranì – gli indigeni originari dell’area attualmente denominata Paraguay – è responsabile di un enorme influsso culturale su quella che è oggi la società paraguaiana, sud brasiliana e nord argentina. La moneta ufficiale del Paraguay si chiama guaranì, e le ricorrenze religiose e profane attuali seguono ancora il loro antico calendario. Però essi vivono in poche riserve, emarginati e disprezzati dalla collettività. Eppure ancora oggi il 43% della popolazione paraguaiana parla la lingua guaranì, spesso per diretta discendenza sanguinea.
Il popolo guaranì è quello che più di tutti ha subito le conseguenze, nell’ordine, della guerra della Triplice Alleanza, della guerra del Chaco e della guerra civile del ’47. L’intera storia dell’America latina è una successione senza fine di sconfitte, persecuzioni sempre a danno dei più deboli, genocidi di interi popoli e guerre civili. Molto più che da noi. Ogni nazione porta con sé ferite di conflitti diversissimi, ma simili nel seguire sempre l’identico canovaccio (sterminio dei popoli indigeni ad opera del colonialismo europeo, guerre di indipendenza, conflitti di potere interni, colonizzazione economica esterna – Operazione Condor -, dittatura sanguinaria, e infine, pace tormentata e condita da incredibili disparità sociali).
La guerra della Triplice Alleanza (1864) venne combattuta tra Paraguay – all’epoca una delle nazioni fresche di indipendenza più ricche e all’avanguardia grazie alle sue enormi risorse naturali – contro l’alleanza di Uruguay, Brasile e Argentina, su avallo e finanziamento statunitense. Dopo una guerra fulminea e sanguinosissima che sterminò il popolo paraguaiano (più della metà della sua popolazione maschile morì nella guerra, moltissimi lasciarono il paese), l’Argentina e il Brasile si spartirono alcuni territori di confine. L’Uruguay rimase a bocca asciutta. E il popolo paraguaiano si rifece sui Guaranì, estirpando loro terre e identità. In America latina (e nel resto del mondo) non solo il pesce grande mangia il pesce piccolo, ma anche il pesce minuscolo divora il pesce infinitesimale.
La guerra del Chaco (1932), tra Paraguay e Bolivia – gli stati più poveri dell’intero continente – scaturì dal sospetto della presenza di petrolio in questo territorio di confine. Vinse il Paraguay a prezzo di enormi sacrifici. Poi scoprirono che il petrolio non c’era. Anzi, ce n’era pochissimo, e per di più, paradossalmente, nei piccolissimi territori che erano rimasti alla Bolivia sconfitta. Non sempre il pesce minuscolo ha una bocca abbastanza grande per mangiarsi l’altro pesciolino. E ci si mette anche l’ironia del destino, a volte.
Il minuscolo stato di Panama (da cui nacque l’espressione “repubblica delle banane” – esso e il Costa Rica non erano altro che enormi piantagioni ad uso e consumo della famigerata United Fruit, con gli Usa che alternavano sanguinari dittatori in quei luoghi come fossero figurine) era, originariamente, una provincia colombiana. La sua nascita fu semplicemente dovuta al bisogno degli Stati Uniti di avere uno sbocco su entrambi gli oceani. E così Roosevelt comprò dalla Colombia l’indipendenza del Panama per 25 milioni di dollari. Impose il controllo e le imposte doganale su tutti i commerci che passavano dal nuovissimo canale di Panama – fresco di inaugurazione – e vinse il Nobel per la Pace. Venne sdoganata la nuova colonizzazione, quella dei governi fantoccio, dove la superpotenza controlla e comanda senza sfigurare sul piano internazionale con inutili cambiamenti di bandiere. La storia si ripete sempre.
Simon de Bolivar, lo storico eroe liberatore del continente latino (da cui la Bolivia prende il nome, nonostante lui fosse venezuelano), sostenne fino all’ultimo la necessità della creazione di un unico paese che unisse tutte le nazioni e le culture sud americane. Al fallimento del suo progetto disse profeticamente “non saremo mai felici”. L’identità latina attuale è basata sul furto e sulla soppressione di ciò che essa era. Una origine così viziata alla base non può che influenzare il comportamento di società intimamente scisse.
Ciò che più rimane impresso – agli occhi del visitante curioso che girovaga per il continente – è l’alternanza insultante di disprezzo e valorizzazione folkloristica e da sagra paesana delle popolazioni indigene – vilipese o onorate con condiscendenza da secoli e secoli. I popoli Mapuche (Cile), Araucanes (Cile e Argentina), Guaranì (Paraguay), Quetchua e Aymara (Perù e Bolivia) da noi non sono mai stati sentiti nominare. Nel migliore dei casi assimilati agli Inca e agli Aztechi, che vennero invece completamente spazzati via dalla colonizzazione spagnola. Eppure, al contrario, essi resistono e sono tra le culture più affascinanti che si possano incontrare, in un continente che non è altro che un susseguirsi di sorprese imprevedibili.
Libri come Le Vene Aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano, scritto nel 1970 – e ancora attualissimo – sono illuminanti per capire quello che era ed è tuttora l’andamento ciclico delle vicende di questi luoghi. Del continente latino, ma non solo.
Questo breve e (necessariamente) non esaustivo articolo non vuol essere altro che un invito alla lettura di tale libro e non solo: allo studio degli eventi che hanno segnato e segnano tuttora le nazioni latine. Stati giovani, ma nati vecchi. La storia dell’America del sud è la storia di tutti noi. Di un rituale di sopraffazione che si riproduce sempre uguale in tutti i luoghi. Libri come Inès dell’anima mia di Isabel Allende, dove si narrano le incredibili vicende del Cile; In Patagonia di Chatwin; Vivere per raccontarla – l’autobiografia di Garcia Marquez -; l’intera opera di Sepulveda, sono delle letture che non solo illuminano sull’assurdità degli episodi storici di questa parte del sud del mondo, ma insegnano anche dove va il mondo, e perché si ostina ad andare in quel senso.
Un breve articolo non potrà mai contenere la vastità e la complessità delle identità di popoli contemporaneamente così frustrati e gioiosi, ma il punto a cui vuole arrivare è solo uno: la Storia di questi luoghi ha tanto da dire. Ascoltiamola.
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