Letteratura
La storia della bimba che voleva sposare un uomo, e si innamorò dell’ebraico
Un saggio di filologia ebraica? Senza dubbio, ma non soltanto. Un avvicinamento premuroso e discreto alla Torah e al Talmud? Anche. Lʼincarnazione, a tratti, di una fusione tanto bizzarra quanto raffinata tra sense of humour so british and so jewish? Certamente sì. La dimostrazione che da gentile, insomma da non ebrea, si può rendere omaggio allʼebraismo esattamente con il medesimo spirito con cui il popolo di Abramo da sempre glorifica il proprio Dio, ovvero non con le statue bensì con le parole? Di sicuro. Però “La lingua che visse due volte” (Garzanti) è innanzitutto un “romanzo” dʼamore, meglio di innamoramento. Una passione travolgente da cui lʼautrice viene pervasa alla tenera età di sei/sette anni per un quarantenne israeliano amico di suo padre. Oggi Anna Linda Callow è una allegra e solare signora con due figli, docente universitaria, saggista, traduttrice, che può teneramente permettersi di scrivere che quando Haim ottenne il divorzio… «gli chiesi di sposarmi. Comʼera prevedibile la mia profferta fu respinta con affettuosa fermezza, costringendomi così, molti anni prima di avere lʼoccasione di leggere il “Simposio” platonico, ad avventurarmi sui fatidici scalini della scala amoris: la scala dellʼamore che, secondo il grande filosofo ateniese, dalla contemplazione dei corpi belli porta alla speculazione intellettuale».
Così Anna Linda, non potendo fidanzarsi con lʼuomo del suo cuore, iniziò a studiare il mondo da cui Haim proveniva. Diciamo che non ha mai smesso. E adesso ci regala un concentrato di quellʼimperituro amore: una spremuta di melagrana. Una centrifuga di sapori, suoni, saggezze, citazioni, liturgie, identità, riflessioni, odori plurimillenari, vera e propria avventura che dalla Genesi giunge a oggi, attraversando vittorie e sconfitte, adattamenti e meticciati – basti pensare allo yiddish o allo spagnolito/ladino, ai mille “dialetti” local-ebraici di mezzo mondo e di cui ancora apprezziamo, per esempio, il giudeo-veneziano o l’ebraico-romanesco o lʼebraico mantovano. Da lingua a un certo punto sostanzialmente morta al di fuori di sinagoghe, yeshivot, consessi di rabbini e Maestri al monumentale lavoro del lessicografo Eliezer Ben Yehuda (nato nella russa Lužki nel 1858, morto a Gerusalemme il 21 dicembre 1922): dizionario in diciassette volumi, completato dalla sua seconda moglie Hemda e dal figlio – primo bambino, dopo secoli, ebraicofono dalla nascita.
Callow ha la capacità di raccontarci il divino e lʼumano, di passare dalla inesistenza delle vocali al filosofo Emmanuel Lévinas, dallʼOnnipotente alla pronuncia delle singole lettere, dai mistici ai ribelli, dalla Shoah agli haredìm, dallʼivrìt (ebraico moderno) allo yiddish.
Su una cosa solamente non riesco, ahimè, a concordare con lei. Quando scrive che «le lingue sono sempre imparabili, insegnabili e traducibili perché nascono da uno zoccolo duro di esperienze umane uguale e comunicabile sotto tutti i cieli, e le differenze che si riscontrano sono solo sfumature». Certo, morà Callow, hai ragione, più che ragione. Eppure un tuo grande estimatore – chi firma queste righe – non è mai andato al di là dei rudimenti necessari al proprio bar mitzvà o poco più. Probabilmente pigrizia, troppe cose di cui occuparsi, e magari qualcosa di inconscio e irrazionale, chissà. Oggi me ne dispiaccio moltissimo. Per questo, morà, ancor più ti ringrazio di aver scritto “La lingua che visse due volte”.
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