Letteratura
La separazione geografica e sentimentale nel romanzo di Jana Karšaiová
Jana Karšaiová – Divorzio di velluto – Feltrinelli 2022
Le frontiere, che un forte moto di opinione da noi vorrebbe abolire, nei fatti sono state erette a dismisura nel recente passato. Nel suo paradossale e provocatorio (ma non tanto) pamphlet Elogio delle frontiere Régis Debray rammentava che ben ventisettemila nuovi chilometri di frontiera sono stati tracciati a partire dal 1991. Anche i cechi e gli slovacchi videro in quegli anni, dal didentro, più differenze tra loro di quelle che riuscivamo a scorgere noi per decenni abituati a vederli, dal di fuori e nelle carte geografiche, come un’unica identità, Cecoslovacchia e cecoslovacchi, fino al punto di separare le proprie esistenze in due stati e porre tra loro una nuova frontiera.
Ora, questo romanzo mette in evidenza fin nel titolo il carattere di quella separazione tra i due popoli, che venne definita di velluto, ossia senza asprezze e rancori: una buona ragione per credere che entrambi ne avessero abbastanza e ritenessero un’opportunità da cogliere subito dopo la caduta del comunismo che li aveva tenuti legati per avviare una esistenza separata. Le identità individuali o collettive evidentemente non sono un giogo né una camicia di forza ma un modo liberamente eletto di essere e di stare al mondo secondo il principio non delle affinità elettive ma selettive: stare con se stessi e non con gli altri. Ma qui la questione ha qualche sfumatura in più. Il fatto è che prima della costituzione della Cecoslovacchia nel 1918, alla caduta dell’impero austro-ungarico, e della ricostituzione dopo la guerra nel 1948 e dell’unificazione forzata per mano del comunismo dei due popoli-nazioni, gli slovacchi – si apprende da alcuni passi dello stesso libro che abbiamo tra le mani- erano solo nella testa dei letterati, quelli reali infatti parlavano tedesco, ungherese, ceco e slovacco. Cosa definiva chi erano? Non certo la lingua.
Ma poi nel corso stesso della narrazione si apprende che i rapporti tra i due popoli non furono idilliaci, che i cechi sfottevano gli slovacchi nelle barzellette sui ritardi e i ritardati, che non c’era armonia. E per tutto il romanzo trionfa l’orgoglio slovacco: la lingua slovacca, il cibo slovacco, le montagne slovacche, ecc .
«Katarína gli aveva detto che sì, era slovacca e sarebbe rimasta slovacca per tutta la vita», si legge. Ma anche: «Se camminavo per strada con mio padre diventavo una ceca, se era mia madre a tenermi per mano, ero slovacca, almeno per il mondo attorno a noi. La lingua ti etichetta subito. Non voglio più sembrare una straniera».
Ma veniamo al dunque. Siamo davanti a una classica storia dentro la Storia, il tessuto delle piccole vicende quotidiane cucito dentro, nidificato o in parallelo, con la grande trama della storia del Novecento. La storia centrale è quella di Katarína e di Eugen, slovacca lei e ceco lui che seguiranno lo stesso destino della Cecoslovacchia. Si amano, si sposano, poi un giorno lui le lascia un biglietto in cui annuncia un momentaneo distacco. Sembra una fuga, un abbandono. Attorno a Katarína si muove un piccolo coro di persone, innanzitutto Viera, l’amica del cuore che studia in Italia e ama una professoressa italiana, poi la madre anaffettiva, il padre prostrato dall’alcol, e i fratelli tra cui la sorella Dora, sempre evocata, ma assente perché già partita in America. Attorno a Eugen – questo giovane manager che ama, con una sottolineatura che Katarína respinge, la propria moglie slovacca – si intravvede una famiglia ceca molto snob, un amico carissimo, Lukáš, su cui grava un triste destino, insomma dei mondi contigui che dialogano e che si respingono. Anche dentro la famiglia di Katarína i sentimenti sono smossi. La vicenda si avvia tra un Natale e un Capodanno all’atto dell’abbandono del tetto coniugale di lui e prosegue fino al suo ovvio epilogo.
Di separazioni, di parenti lontani, della morte di qualche giovane amico, di rapporti anaffettivi (con la mamma e non solo), di mancate intese, di piccoli e grandi torti subiti, di dolori e incomprensioni, di piccoli eventi apparentemente senza importanza ma che trattandosi di vita producono forti e ritardati trasalimenti interiori, è sostanziata la scrittura.
«Le parole non dette, le attenzioni mancate sono quelle a far maturare le decisioni. Sembrano brusche, le scelte, ma solo perché arrivano addosso sul momento: una punta dell’iceberg che finalmente si vede», leggiamo.
L’affabulazione è tenue e a tratti, legata cioè a minute vicende, non ad ampie e serrate volute narrative, non senti il moto imperioso che ti trascina nella lettura vorticosa ma piuttosto il pointilisme di piccoli tocchi lievi di sensibilità ma anche di precisione narrativa. L’ adesso narrativo è spostato avanti e indietro, senza una narrazione consecutiva ma secondo il moto in cui l’azione di oggi e i ricordi di ieri si mischiano creando un effetto-alone di piccolo dolore sottocutaneo, molto contenuto dalla parsimonia del gesto verbale che si avvale di una specie di effetto cric, minimo sforzo, massimo rendimento in termini di sommovimento emotivo e coinvolgimento del lettore. Sembra una storia anodina, una fra le tante – eventi familiari, ricordi di infanzia, amori fuggevoli -, eppure muovono e smuovono anche legnosi e cerebrali letterati come chi scrive, a cui il tutto è sembrato un buon esordio.
Una curiosità. I modi e i tempi verbali sono volti al presente storico, all’imperfetto o al passato prossimo, pur di evitare quel passato remoto, che nell’italiano narrativo secondo l’Arbasino di Certi romanzi suona tombale, e perciò accuratamente evitato.
L’about del romanzo – di che parla in estrema sintesi – mi è sembrato questo. C’è in noi questa dialettica irrisolta e perenne: da un lato quella di fondersi e confondersi in un tutto fluente – sia essa famiglia o nazione – e dall’altro quella di voler essere soltanto se stessi, di attestarsi nella propria specificità, e a partire da questa negoziare con l’alterità, col mondo.
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Jana Karšaiová è slovacca ed ha scritto questo suo primo libro direttamente in lingua italiana.
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Finalisti PREMIO STREGA 2022
A fianco di ogni libro troverete il link alla sua recinzione (recingere con un testo un altro testo) su questa rivista man mano che pubblicherò le recinzioni dei 12 romanzi finalisti.
I finalisti sono:
1. Marco Amerighi con “Randagi” (ed. Bollati Boringhieri), presentato da Silvia Ballestra. urly.it/3ny2q
2. Fabio Bacà con “Nova” (ed. Adelphi), presentato da Diego De Silva. urly.it/3nypf
3. Alessandro Bertante con “Mordi e fuggi” (ed. Baldini+Castoldi), presentato da Luca Doninelli. urly.it/3nvnf
4. Alessandra Carati con “E poi saremo salvi” (ed. Mondadori), presentato da Andrea Vitali. urly.it/3p5zh
5. Mario Desiati con “Spatriati” (ed. Einaudi), presentato da Alessandro Piperno. urly.it/3nv-j
6. Veronica Galletta con “Nina sull’argine” (ed. minimum fax), presentato da Gianluca Lioni. urly.it/3p89p
7. Jana Karšaiová con “Divorzio di velluto” (ed. Feltrinelli), presentato da Gad Lerner. urly.it/3nx4h
8. Marino Magliani con “Il cannocchiale del tenente Dumont” (ed. L’Orma), presentato da Giuseppe Conte. urly.it/3n-nv
9. Davide Orecchio con “Storia aperta” (ed. Bompiani), presentato da Martina Testa. urly.it/3p34g
10. Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij” (ed. Rizzoli), presentato da Renata Colorni. urly.it/3nzhn
11.Veronica Raimo con “Niente di vero” (ed. Einaudi), presentato da Domenico Procacci. http://urly.it/3nsnm
12. Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (ed. Ponte alle Grazie), presentato da Loredana Lipperini. urly.it/3nrz8
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