Finanza
La scandalosa storia di Marthe Hanau: populista, corruttrice, coraggiosa
Deformando l’amabile definizione di radical chic coniata nel 1970 da Tom Wolfe si potrebbe sostenere che per un certo periodo i radical chic furono tali in quanto essendo radical erano chic e solo successivamente i fattori si invertirono, almeno in Europa. Infatti quando dal fronte e dalla montagna si passò armi e bagagli direttamente al salotto fu radical essere semplicemente chic.
La deriva ci ha trascinato fino ad oggi in quella sorta di inconsistenza borghese particolarmente vacua e imbecille che ha quasi totalmente soppiantato la cosiddetta borghesia illuminata e con essa anche una forma di letteratura impegnata, ma leggera caratterizzata da biografie romanzate e grandi narrazioni artistiche e storiche che avevano come ragione primaria l’alfabetizzazione di un paese e l’utopia di una democratizzazione della cultura.
Quel mondo colto e raffinato per l’appunto soprattutto in Europa era figlio della Resistenza come successivamente dell’emancipazione dalle dittature di stampo o di origine comunista. Si trattava di donne e uomini impegnati culturalmente e quindi politicamente. Da questo milieu nacquero figure intellettuali oggi quasi ormai scomparse che nella loro pratica d’azione erano capaci di unire una sensibilità sociale ad una qualità artistica non indifferente. Oggi queste figure sono sostanzialmente relegate nell’angolo dell’ideologia storica che como tale è considerata ormai priva di alcun interesse. Tuttavia sarebbe bene ogni tanto buttare l’occhio in quell’angolo polveroso perché le sorprese non mancano e Dominique Desanti, al secolo Anne Persky è stata tra loro una delle più sorprendenti.
Nata nel 1914 a Mosca, Anne Persky, figlia di un avvocato di origini bierlorusse, ha vissuto i primissimi anni tra Varsavia e Berlino prima di raggiungere all’età di dieci anni Parigi. Dal carattere forte e impetuoso, non facile ai compromessi Anne Persky diviene giornalista, femminista e prese parte con Maurice Merlau-Ponty e Jean Paul Sartre alla Resistenza francese attraverso la rivista clandestina Sous la Botte poi confluita nella nota Socialisme et liberté.
Dopo la guerra Persky diviene una giornalista impegnata con il nome di Dominique Desanti. Vicina alle posizioni del partito comunista e amica di artisti e scrittori in particolare vicina al movimento surrealista, Dominique diverrà una vera e propria biografa di quel salotto immaginario che vedrà incrociare le esistenze romanzate di Flora Tristan, Sacha Guitry, Elsa Aragon e Sonia Delaunay. Una produzione ricchissima capace di unire all’analisi storica uno stile leggero e mai banale. Ma è il suo esordio romanzesco dal titolo La Banquière des années folles: Marthe Hanau che oggi torna in maniera prorompente in tutta la sua urgente attualità. Il libro trae ispirazione dalla biografia di Marthe Hanau che nel 1928 in Francia fu al centro di un grande scandalo bancario che la vide come abile speculatrice e non di meno astuta giocatrice di poker sul tavolo della politica nazionale dell’epoca.
Marthe Hanau riuscì infatti a distrarre i risparmi di milioni di francesi veicolando i loro interessi attraverso un giornale finanziario da lei fondato e sostanzialmente diretto – La Gazette du Franc – che basandosi su notizie false indirizzava i mercati permettendole di speculare attraverso agenzie bancarie che solo ufficialmente non erano a lei riconducibili. In questo modo Hanau sviluppò una bolla finanziaria alla cui base stavano i risparmi di milioni di cittadini francesi per un totale di oltre centosettanta milioni di franchi dell’epoca.
La figura assolutamente non banale di donna emancipata negli anni folli che avrebbero preceduto la seconda guerra mondiale appare oggi di grande modernità oltre che di forte fascino. Marthe Hanau fu infatti al centro di una forte campagna stampa da lei stessa fomentata – oggi diremmo di stampo populista – contro i grandi gruppi bancari nazionali e una volta in carcere fece uno sciopero della fame e progettò addirittura un tentativo di evasione. Nella vita privata tempestosa almeno quanto quella pubblica Marthe Hanau non nascose mai la propria omosessualità e la sua figura seppur fortemente contraddittoria rappresenta ancor oggi l’audacia di una donna capace di sfidare e all’occorrenza usare un potere corrotto e totalmente in mani maschili.
Non è facile stabilire un giudizio attorno a Marthe e forse non è nemmeno necessario; fu una populista, una corruttrice, come anche una donna coraggiosa e di grande fascino. Certamente fu in grado di evidenziare lo stato marciscente in qui versavano quelle che avrebbero dovuto essere istituzioni democratiche e di controllo. Marthe Hanau muore infine suicida nel 1935 in prigione, non senza aver prima aperto uno squarcio sulla decadenza culturale e democratica di un paese e in generale di un continente che sarebbe poi esplosa in una guerra mondiale devastante solo pochi anni dopo.
Dominque Desanti non fa di Marthe Hanau un’eroina, ma legge con cura e attenzione la sua biografia in un’ottica di differenza capace di evidenziare quella sorta di perversione femminile – come direbbe Louise Kaplan – che si riversa nei comportamenti sociali anche a causa dello stretto binario a cui una donna dall’intelligenza raffinatissima come lei era obbligata dai costumi maschilisti dell’epoca. La narrazione di Dominique Desanti supera la semplice biografia romanzata proponendo una lettura impegnata che è ancora oggi capace di svelare molte delle incomprensioni e contraddizioni che attraversano gli scandali bancari e politici di questi giorni.
Da La Banquière fu tratto anche un film per la regia di Francis Girod che purtroppo non vide l’apporto alla sceneggiatura di Dominque Desanti e al di là di una magistrale interpretazione di Romy Schneider non sviluppò appieno le potenzialità di un testo e di una storia ancora oggi tutta da raccontare.
Questo tipo di narrazione infatti è un delicato equilibrio tra letteratura e realtà, tra fatti e racconto emozionale: se questo equilibrio viene falsato l’effetto risulta fortemente ridotto divenendo a seconda dei casi o una banale narrazione o un dato informativo che seppur utile difficilmente è in grado di incidere nelle coscienze dei lettori. Ed è attorno a questa forma di narrazione che forse sarebbe interessante tornare a lavorare in un’ottica sociale, superando anche un’ambizione che in Italia produce troppo spesso piatti emuli di Carrére o di Vollmann e non solo per limiti artistici, ma per una mancanza di una visione sociale realmente chiara ed efficace. Una sindrome ombelicale con qualche eccezione tra cui il sorprendente Andrea Tarabbia sia con Il demone a Beslan che con l’ultimo romanzo Il giardino delle mosche che Vittorio Giacopini con La mappa e ancor prima con Re in fuga. Mentre appare ormai consumata nel moralismo un po’ reazionario di Paola Mastrocola o nella futilità in stile di Casati Modigliani quella che fu la leggerezza colta e profonda maturata nella scrittura consapevole di Clara Sereni, Natalia Ginzburg, Elena Giannini Belotti e in particolare di Fausta Cialente. Una scrittura impegnata capace di coinvolgere un pubblico di lettrici e lettori ampio e attento.
Se certamente affascinano le storie cupe e psicotrope che parlano agli estremi di una società stratificata e complessa come quella attuale, non va però sottovalutata la necessità di raccontare quella semplicità scandalosa dai fatti vaticani agli scandali bancari che tocca la superficie emotiva, ma anche lo spettro di una collettività diffusa. Il giornalismo alla lunga non basta per incidere e costruire una consapevolezza.
Non una letteratura di moralità nazionale, no di certo, ma una letteratura che sappia confrontarsi con la contemporaneità senza auto escludersi all’interno dei recinti dell’esclusività esperienziale sì, riconquistando così la centralità che le spetta nel dibattito quotidiano.
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